Uno dei più grandi filologi delle Lettere medievali europee si chiamava d’Arco Silvio Avalle. Chiesi spiegazioni al professore di storia della lingua in Sapienza e mi rispose che sì, l’autore delle Concordanze della lingua poetica italiana delle origini, che stavamo usando al seminario per commentare i sonetti dugenteschi di Montandrea, di nome faceva proprio d’Arco. Con la D minuscola, perché i suoi genitori intendevano omaggiare Giovanna d’Arco e, non potendo legalmente chiamare “Giovanna” un figlio registrato all’anagrafe come maschio, avevano optato per l’altra metà del nome della santa condottiera.

All’epoca quel nome sul dorso dei volumi di lessicografia e semiologia m’incantava perché mi pareva un nome da supereroe o da stregone, mi faceva pensare a Donnie Darko. A rimuginarci ora mi colpisce, invece, la questione di genere. Giacché i genitori di Avalle avevano ragione: “Giovanna” è assai più equivalente a “d’Arco” che non al suo travestimento maschile, “Giovanni”. Quei genitori non sono scesi a compromessi.

Assegnare identità

Una delle cose che mi spaventa all’idea di diventare genitore io è appunto assegnare un nome a una persona che ancora non conosco. Chi mi assicura che il nome che scelgo non risulterà impronunciabile nella lingua del paese in cui miə figliə, magari, sceglierà di (o sarà costrettə a) migrare? O che non sarà improvvisamente associato a quello di un terrorista, di un omicida seriale, di un dittatore?

Nel corso dell’ultimo decennio, a un sacco di bambine sono stati dati i nomi Khaleesi, Dany o Daenerys in onore di una protagonista di Game of Thrones che, icona femminista per sette stagioni di fila, è stata inspiegabilmente trasformata dagli sceneggiatori in una specie di Hitler coi draghi nell’ultimo episodio della serie. Chi poteva prevederlo?

Imporre un nome a un estraneo in fasce significa orientare per sempre la presunzione di chi lo incontrerà. Non è davvero una cosa che puoi tenerti per te, il nome sui tuoi documenti d’identità. Né può crescere, svilupparsi con te, corrisponderti quando finalmente ti pare di conoscerti.

Visto che insegno a brillanti ventenni che, spesso proprio negli anni dell’università, trovano le risorse per stabilire la propria identità di genere anche legalmente, e reclamano per sé un nome che non la neghi, c’è una cosa in particolare che mi preoccupa in tutta questa faccenda. Chi me lo dice, da ipotetico genitore, che quella che mi presentano come bambina si rivelerà poi in effetti una ragazza, e non un ragazzo? Che nella mia scelta tra Giovanna e Giovanni, per dire, non costringerò quella creatura (che non parla ancora la mia lingua, non conosce la mia cultura e non può ancora presentarsi da sé) a un’identità cui non è mai stata davvero identica?

Questo problema si dà specialmente nei luoghi in cui si parlano le lingue di cui d’Arco era maestro: quelle cosiddette romanze, in cui persino gli oggetti inanimati e le idee, i concetti e i frutti, le cose e i posti si accordano grammaticalmente al maschile o al femminile per imperscrutabili logiche millenarie su cui si scervellano etimologi e indoeuropeisti. Così pochi nomi di persona italiani hanno il vantaggio di non tradire il genere presunto (quello che l’Accademia della Crusca, con inusuale improprietà lessicale, ha recentemente chiamato «naturale») di chi identificano. Forse nessuno: Fiore? Celeste? Levante? In una civiltà il cui mitologico fondatore si chiama Enea e il cui poeta nazionale scelse Dante (participio ambigenere di dare) come nome, questo potere è tipico solo dei nomignoli d’affetto e confidenza: Ale, Fede, Vale, eccetera.

Chiamami col mio nome

Dal 1931 esistono in Italia le carte d’identità. Che liberazione sarebbe, da ragazzз, scegliersi il nome da mettere su quella carta, che non richiede di specificare M o F da nessuna parte. Io da ragazzo giocavo di ruolo online e tenevo un blog. Ho conosciuto così un sacco di persone attraverso i nickname che si erano datз da sé su quelle piattaforme, prima che i social network imponessero le loro real name policy e trasformassero l’internet in uno spazio più di reciproca sorveglianza che di evasione.

Di molte di quelle persone (alcune ancora cruciali nella mia vita) ricordo più immediatamente i nomi inventati, per me più reali di quelli sui loro documenti – Ninque, Ghael, Astelen, Nargil, Amarant, Try, Arian, Ge. Quegli appellativi da romanzo fantasy o di fantascienza, impossibili da associare a priori a un genere (ma anche a una generazione, a una provenienza geografica o sociale, all’orientamento religioso o politico di un genitore), dicevano molto di più di chi li aveva scelti rispetto ai banali nomi “reali” che sostituivano, i quali semmai descrivevano le loro famiglie d’origine.

Se Romeo potesse, come Giulietta lo implora di fare nei versi più famosi di Shakespeare, scegliersi un altro nome e smarcarsi dalla famiglia, sarebbe il protagonista di una commedia romantica, non di una tragedia.

In questi giorni è uscito il trailer del nuovo sequel di Matrix. Mi ha ricordato che il nome “reale” del protagonista – cioè il nome falso, visto che la realtà è un artificio nella mitologia del film – non è Neo (che invece è un nickname che si è scelto) ma Thomas Anderson. Tuttз nel trailer lo chiamano “Thomas”, e rivelano perciò che il prossimo Matrix sarà di nuovo ambientato (almeno all’inizio) in una prigione oppressiva di finzione nella finzione.

Nell’originale del 1999 l’antagonista Smith, emblema assoluto della repressione normativa, insiste a chiamare Neo “signor Anderson” al fine di non permettergli di trascendere i limiti della supposta natura, della supposta umanità. Questa transizione però avviene lo stesso, in una memorabile scena di botte nella stazione della metro al grido liberatorio «mi chiamo Neo», che echeggia decenni di rivendicazioni onomastiche anche al di là dell’identità di genere – penso a Muhammad Ali sul ring di fronte a Ernie Terrell, ad Hasan Minhaj che corregge Ellen DeGeneres in diretta. Mettendo quel grido in bocca a Keanu Reeves, un divo uomo-qualunque etero e bianco, Lana e Lilly Wachowski hanno mostrato a tutti gli adolescenti patiti di kung fu e fantascienza che le esperienze di lotta delle persone trans, non binarie e fluide non sono aliene questioni di una minoranza complicata, magari da aiutare, ma paradigmi rivelatori, nonché intersezionali, su cui rifondare il mondo: in cui identificarsi tuttз.

Green pass e Deadname

L’altro trailer essenziale di quest’autunno è quello del nuovo Spider-Man, tutto incentrato sul fatto che, nello scorso film, il mondo ha scoperto che Spider-Man si chiama Peter Parker. Questo inedito trauma, per l’erede teenager del boomer che avviò la saga degli Avengers scandendo in conferenza stampa «I am Iron Man», equivale a un outing forzato: Spider-Man non è pronto per dire a tuttз chi è, ma non vuole nemmeno che le persone a cui l’ha già detto se lo dimentichino.

La conseguente origine del multiverso Marvel (un casino magico interdimensionale ordito dal Doctor Strange per tenere insieme i due impulsi di un Peter in transizione) mi ha fatto pensare alle carte d’identità di cui dicevo: al fatto che portano i nomi che qualcuno ci ha assegnato prima di conoscerci, e che per alcunз quel nome nega l’identità invece di rivelarla.

C’è un solo aspetto del Green pass su cui mi pare di potermi pronunciare senza dubbi. È inaccettabile che il suo corrente uso costringa uomini e donne trans ad esibire frequentemente documenti che riportano il loro deadname, e dunque a giustificare la mancata corrispondenza tra quei documenti e il loro aspetto, e dunque a spiegare a ristoratori e bigliettai e capotreni vari qualcosa di sé che magari non hanno ancora condiviso neanche con la propria famiglia.

Più che d’Arco, Neo e Spider-Man, ad aiutarmi a capire che bisogna ripensare il Green pass sono stati dei ragazzi che mi sembrano altrettanto supereroici: gli attivisti trans italiani che, soprattutto nei mesi della pandemia, sono emersi sui social network, e in specie su Instagram.

 Mentre scrivo queste righe sto seguendo le storie di Francesco Cicconetti (@mehths), che è in clinica per la chirurgia di ricostruzione toracica. L’eloquenza, l’ironia, la chiarezza della sua narrazione di sé mi commuovono, ma soprattutto sono ammirato dalla disponibilità e lucidità con cui interagisce con i follower, che forse è il vero discrimine tra influencer e attivista. L’altro che mi incanta con il lindore delle risposte a decine di domande, con le storie di una maschilità a cui aspiro pur non avendo dovuto mai lottare perché mi chiamassero Alessandro, è Ethan Caspani (@caspisan), di cui consiglio ovviamente il video L’importanza del nome. A Natale vorrei andare a vedere Matrix 4 con loro.

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