Cucinare senza cucina, l’arte di trasformare gli ingredienti in nutrimento

Cibo è il nostro inserto mensile che racconta il mondo attraverso ciò che mangiamo. Esce l’ultimo sabato di ogni mese sulla app di Domani e in edicola. In ogni numero svisceriamo un tema diverso con articoli, approfondimenti e commenti: il tema del numero di questo mese è cucina abitabile. Qui troverete man mano tutti gli altri articoli di questo numero. In questa pagina, invece, tutti gli altri articoli di Cibo, che è anche una newsletter gratuita. Ci si iscrive a questo link. Nel silenzio del deserto del Sahara, nelle steppe battute dal vento dell’Asia centrale, nelle tundre artiche e nelle savane africane, esistono cucine che sfidano ogni concezione tradizionale di spazio culinario. Quando non ci sono fornelli né pareti, l’arte di trasformare gli ingredienti in nutrimento diventa un dialogo intimo con gli elementi naturali. Dalle yurte asiatiche dove il latte di giumenta in un sacco di cuoio fermentato diventa airag, alle tende berbere dove il tè alla menta si prepara con gesti rituali tramandati da generazioni, dal tandoor portatile dei nomadi alle tecniche di affumicatura dei Sami lapponi, ogni cultura ha sviluppato la propria risposta alla domanda: come si cucina quando non si ha una cucina? La storia dell’alimentazione non è una ricetta Pietre roventi e vapore sotterraneo In Giordania in quella distesa color zafferano che è il Wadi Rum, i beduini hanno perfezionato lo zarb, una tecnica che trasforma la sabbia del deserto in un forno naturale. Il processo inizia scavando una fossa profonda sessanta-ottanta centimetri nel terreno sabbioso. Si accende un fuoco con legna secca, lasciandolo bruciare fino a ottenere carboni ardenti. La carne - agnello, capra o pollo - viene tagliata a pezzi uniformi e marinata brevemente con acqua, limone, aglio, sale e pepe. Le verdure come patate, pomodori, carote, cipolle, cavolfiori, melanzane e peperoni vengono preparate in pezzi di dimensioni diverse a seconda del tempo di cottura necessario. Su una griglia metallica a più livelli, le verdure vanno in alto e la carne in basso, permettendo ai succhi di insaporire tutto. La griglia viene posta sopra i carboni, coperta con un coperchio, poi con coperte bagnate e infine sepolta completamente nella sabbia. Se bistecca e proteina sono sostantivi maschili In Armenia, il tonir, un forno scavato nel terreno e rivestito d’argilla, è usato da secoli per cuocere pane lavash e carni. Il pane sottile a base di farina, acqua e sale viene cotto attaccandolo alle pareti che raggiungono altissime temperature, acquisendo un caratteristico aroma affumicato e una lunga conservabilità. L’Unesco nel 2014 lo ha dichiarato patrimonio culturale immateriale dell’umanità, non solo per il valore gastronomico ma per il ruolo sociale e rituale. Gli aborigeni australiani usano invece l’earth oven, una fossa di circa due metri di diametro dove rocce vulcaniche vengono alternate a legna e bruciate per ore. Steli di piante creano una griglia naturale tra le pietre roventi e il cibo, mentre foglie verdi e tela di iuta bagnata forniscono l’isolamento necessario. Il risultato è una cottura che combina vapore, arrosto e barbecue simultaneamente. Salvare le tradizioni arbëreshë In Nuova Zelanda, i Māori iniziano ogni pasto con una karakia, una preghiera per benedire il cibo e ringraziare la terra. Le rocce vulcaniche vengono riscaldate fino a diventare bianche, mentre agnello, maiale, pollo e verdure vengono avvolti in foglie e disposti su cestini di lino intrecciato. Teli bagnati e terra sigillano il tutto per ore. Questa tecnica si chiama hāngī ed è un’espressione di manaakitanga, l’ospitalità māori, e un modo per mantenere viva la connessione spirituale con Papatūānuku, la Madre Terra. Nelle isole Hawaii, l’imu non costituisce semplicemente un metodo di cottura ma una connessione con Pele, la dea del vulcano. Questo forno sotterraneo scavato nella sabbia vulcanica nera utilizza la lava porosa per trattenere il calore. Nessun calore secco ma un vapore creato attraverso materiali vegetali. Le foglie di banana forniscono la prima barriera protettiva, seguite da teli bagnati e sabbia vulcanica per il sigillo finale. E la cucina diventò di design con meno fatica e più bellezza Nelle infinite steppe dell’Asia, il khorkhog rappresenta un’altra variante: pietre di fiume lisce vengono riscaldate nel fuoco e poi alternate a pezzi di carne in una pentola di ferro sigillata. Le pietre continuano a cuocere dall’interno mentre il fuoco scalda dall’esterno, in quella che i nomadi chiamano «la cottura danzante». In ogni angolo del mondo, la brace racconta storie di fuoco e di sapori. In Messico e nei Caraibi sfrigola la barbacoa (da cui deriva il termine barbecue) in un forno sotto terra chiamato pib. Una modalità di cottura che risale ai Maya. In Argentina, l’asado profuma di quebracho, il churrasco brasiliano combina diverse carni su spiedini rotanti sopra braci di eucalipto mentre in Sudafrica il braai riunisce tutti attorno a salsicce che cuociono sul legno d’acacia. In Giappone, gli yakitori si dorano sul carbone di quercia bianca. Anche i Neanderthal erano grandi chef Quando cucinare diventa questione di vita Gli Inuit hanno sviluppato tecniche di cottura che operano in un ambiente dove le temperature possono raggiungere i sessantaquattro gradi sotto zero. Usata per migliaia di anni per fornire calore, luce e un mezzo per cucinare, la qulliq è una lampada tradizionale inuit che brucia olio di foca o di beluga in una vasca di pietra saponaria, con muschio artico impiegato come stoppino regolabile. Su questo delicato equilibrio di fiamme, piccole porzioni di carne e pesce vengono cotte su pietre piatte riscaldate. In Islanda, il hverabrauð, il tradizionale pane geotermico, viene cotto sfruttando il calore naturale delle sorgenti termali. L’impasto viene sepolto nella sabbia calda per ventiquattro ore, fino a ottenere una consistenza densa e un sapore leggermente dolce. Il Kazakistan ama i suoi cavalli. Senza rinunciare a mangiarli Ad oltre tremila metri di altitudine, sulle Ande, l’aria rarefatta crea condizioni di cottura uniche. Qui prende forma la pachamanca peruviana: una fossa scavata nel terreno in cui pietre arroventate vengono disposte per cuocere patate, mais, carni e legumi, avvolti in foglie di banano o di mais. Una volta coperta la buca, il calore trattenuto dalle pietre cuoce lentamente gli alimenti, restituendo sapori profondi e affumicati. Una cottura al riverbero che affonda le sue radici nella cultura inca. Queste tecniche, che attraversano continenti e millenni, non sono solo metodi per preparare il cibo: sono testimonianze di un rapporto primordiale con il fuoco e la terra, dove cucinare significa dialogare con gli elementi, rispettare i tempi della natura e riconoscere che ogni luogo, dal deserto più arido alla tundra più gelida, può diventare una cucina. [Missing Caption][Missing Credit]