Avete notato che questo è il grande momento dell’aggettivo “surreale”? Si sente in televisione, si legge sui giornali e sulla rete. Piace soprattutto ai commentatori sociali, a certi giornalisti, che lo usano, forse prendendo spunto dal «surreal» dell’anglo-americano, come sinonimo di “assurdo”, “insensato”, “inaccettabile”, “ridicolo”, “riprovevole”, “infondato”, “paradossale”, “contraddittorio”, “fuori luogo” o, semplicemente, “stupido”; o, ancor più semplicemente, “pazzesco”. Piace a un capopartito come Matteo Salvini. Qualche assaggino dal suo ampio menu: «Surreale che ci siano scuole chiuse e porti aperti»; «Surreale che il paese sia appeso a Renzi»; «Surreale il governo dei migliori sostenuto dal parlamento dei peggiori»; «Dibattito surreale, il problema è la poltrona»; «Surreale che il sindaco di Napoli faccia campagna elettorale in Calabria»; «Surreale discutere di omofobia» e così via. L’aggettivo “surreale”, in questi esempi, così come in numerosi altri possibili, si riferisce a situazioni, a prese di posizione, a discorsi pubblici, alla politica in generale; e intende esprimere protesta, disprezzo, riprovazione, impazienza.

Nessun giudizio negativo

Non troppo tempo fa, quando appariva nella lingua orale o scritta, “surreale” rimandava a una dimensione fantastica, onirica, straniata; a una realtà sorprendente, e non presupponeva alcun giudizio negativo. Anzi: evocava fascino ed esotismo; tutt’al più comunicava un vago disagio da straniamento, una confusione fiabesca, che rappresentava pur sempre un piacere, in specie per i giovani. “Surreale” era un’atmosfera, un paesaggio, una situazione. Gli ometti volanti di Magritte: ecco una visualizzazione del surreale, non priva di ironia. O gli orologi squagliati di Dalì. Quanti poster se ne sono fatti, o copertine di libri, di cui adornare le pareti delle camere e dei corridoi!

Nell’utilizzo odierno dell’aggettivo, oltre alla riprovazione dell’altro, percepiamo anche l’autocompiacimento dei parlanti o degli scriventi (più rari). Possiamo senz’altro affermare che chi ricorre a “surreale” (perlopiù persona di sesso maschile) si crede molto intelligente, anzi, il più intelligente, e ritiene di non aver bisogno di dimostrarlo se non attraverso il ricorso a quell’aggettivo. A me non la fanno! Io li sgamo subito, fidatevi di me! Io sì che vi dico come stanno le cose! Tra tanti sedicenti intelligenti non mancano neppure le gare di intelligenza. Esiste perfino qualcuno che, per paura di non saper sfruttare tutto il potenziale del vocabolo, è arrivato a scrivere una frase come «La scena è oltre il surreale».

Realtà stratificata

Tutta quest’intelligenza, va da sé, non esiste. Esistono, piuttosto, inesattezza e ignoranza. Chi usa “surreale” nel modo che ho appena descritto, cioè erroneamente, maldestramente, sbrigativamente, parla a sproposito e non sa di parlare a sproposito. Perché? Basta lanciare uno sguardo alla storia, che, al solito, è fatta in grande misura di vicende linguistiche e letterarie. “Surreale” deriva dal francese «surréel», così come “surrealtà”, il sostantivo corrispondente, da «surréalité». Il concetto è squisitamente avanguardistico. André Breton (1896-1966) ne ha fatto la sostanza di un vero e proprio movimento artistico-letterario, il “surrealismo” («surréalisme»), nei primi decenni del ventesimo secolo, forse la più fiera e più consapevole contestazione della banalità e della stolidaggine della modernità, raccogliendo lo sperimentalismo psichico di Rimbaud e di Lautréamont, recuperando il termine da Guillaume Apollinaire, che lo aveva introdotto nel 1917 per rivendicare la novità di un certo teatro contemporaneo, e richiamandosi alla psicoanalisi di Freud.

Questo geniaccio, sia nel Manifesto del 1924 sia in un’ampia serie di scritti teorici, critici, poetici e narrativi, predicava l’abbandono degli schemi, la convergenza delle varie arti, la liberazione della fantasia, il rifiuto del positivismo, dell’utilitarismo e del conformismo piccolo-borghese, il ridimensionamento della logica; e celebrava il sogno, l’intensità dell’eros, la soggettività del talento, anteponendo la ricerca spontanea al calcolo preventivo. Surreale, nella sua visione, era una realtà più estesa, più stratificata (il prefisso “sur-” viene dal latino “super-”): una realtà che desse diritto di cittadinanza ai misteri della psiche e che riconoscesse più spazio alla possibilità che alla probabilità.

Pertanto, chi dice “surreale”, quando sa quel che dice, suggerisce immagini di libertà, ricerca di soluzioni inedite, fiducia nell’inesplorato della mente; suggerisce che quel che appare forse nasconde qualcos’altro e che proprio il nascosto avrà la soluzione; insegna che la vita futura è assai più vasta di quella catalogata; ritorna alla meraviglia dell’infanzia. Il surreale, storicamente inteso, designa una rigenerazione del sentire e dell’intendere, e di conseguenza promuove un potenziamento di tutte le facoltà umane – intellettive, etiche, estetiche. Insomma, l’opposto di quello cui alludono le frasi su riportate di Salvini. È vero: la semantica cambia nel tempo; i significati si banalizzano e finiscono per esprimere altro. Non deve, però, andare per forza così. Certa semantica, proprio perché si sa che l’uso tende all’abuso, va rispettata e protetta. Per questo esistono gli scrittori e i lettori. Rispettato e protetto, infatti, quel certo vocabolo dirà molto di più di quanto l’inconsapevolezza dei parlanti e degli scriventi possa mai costringerlo a dire.

Svilire il Rinascimento

D’altronde, il caso di “surreale” non è che uno dei molti falli che i percorsi del senso commettono nella comunicazione mediatica. Io, un po’ per divertimento un po’ per bisogno di controllo, ne vado facendo liste da anni: parole vuote che si pretendono piene; parole piene che si svuotano; parole non più parole, perché contrabbandate per verità…

Un altro esempio attuale, paragonabile a quello di “surreale”, è “rinascimento”, termine con cui dal principio del diciannovesimo secolo e sempre più dalla seconda metà dello stesso secolo, grazie a un intellettuale di nome Jacob Burckhardt (1818-1897), si identifica una delle riforme culturali più rivoluzionarie di tutti i tempi, di cui sono espressione e lascito perenne la riscoperta dell’antichità, lo studio scientifico della storia, l’invenzione delle dottrine politiche, la trasformazione delle arti e la costruzione delle lingue letterarie, e protagonisti – per citare quelli di maggior rilievo internazionale – colossi come Pico della Mirandola, Marsilio Ficino, Pontano, Poliziano, Lorenzo de Medici, Machiavelli, Ariosto, Castiglione, Leonardo, Michelangelo. Matteo Renzi parla di «rinascimento arabo» quando gli si obietta di intrattenere rapporti con regimi discutibili come quello di Bin Salman; e il solito Matteo Salvini parla di «rinascimento europeo» mentre riorganizza la destra internazionale in collaborazione con due estremisti come il premier dell’Ungheria e il primo ministro della Polonia.

Simili distorcimenti non dovrebbero accadere. E, se accadono, andrebbero condannati, perché rivelano la scarsa istruzione dei nostri politici e la leggerezza con cui sviliscono le fatiche e le scoperte dell’intelletto. E sono tanto più gravi perché dimostrano che, dopo tutto, pochi si curano di tanta incompetenza.

Si proclamano strafalcioni, si offende la civiltà, si lede il presente, e alla fine nessuno fa una piega; nessuno perde la faccia. Il punto è questo: che, se i politici non hanno cultura e, dunque, non conoscono la storia, la letteratura, i sentimenti, il gusto e l’arte, la politica stessa non ha cultura, poiché si ritrova priva di lingua, di metafore, di visioni. Le restano solo gli slogan, cioè il nulla.

Noi abbiamo bisogno di politici che conoscano le lingue, le letterature, le storie; di politici che mettano la lettura e lo studio tra i loro primi doveri, e meditino sull’esperienza umana ispirandosi alle parole dei grandi scrittori, con rispetto e con ammirazione; di politici che si facciano vedere con un libro in mano, in libreria o al tavolo di una biblioteca.

Lungi dal voler condannare per principio l’utilizzo dell’aggettivo “surreale”, invito tutti, me stesso per primo, a farne l’uso migliore. E dunque dico a tutti – politici, giornalisti e lettori, soprattutto i più giovani: diventate surreali; ovvero portate sempre qualcosa di nuovo nella vita, scavalcate le barriere, guardate oltre, cercate un po’ più in là; fate poesia della politica, inventate mondi.

Lasciatemi concludere proprio con una frase di Breton, che prendo dall’importante, bellissimo saggio Introduzione al discorso sul poco di realtà (settembre 1924, lo stesso anno del Manifesto del surrealismo): «La mediocrità del nostro universo non dipende essenzialmente dal nostro potere di enunciazione?».

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