«C’è molta gente che vive in case milionarie all’Aventino e pippa, ha debiti, ha problemi con il gioco d’azzardo. Accade in centro come in periferia». Ugo Borghetti, rapper della LoveGang, racchiude nella durezza di questa immagine la fotografia di una Roma che urla le sue sofferenze, mentali ed economiche, tramite le barre. Che non rimangono solo in periferia ma anche nelle strade patinate, e avvolte di turisti, di Monti e Trastevere.
In molti parlano della scena rap e trap romana come di un unicum. Perché, appunto, concentrata sia nel centro, a non pochi passi dagli storici monumenti, sia nella “lontana” Ostia. Temi, ambizioni, problemi e metriche sono le stessi. Ma con diverse sfumature.

A San Paolo

Wave Db viene a prenderci in auto da Trastevere, direzione quartiere San Paolo. Questa è la sua zona, dove ragazzi che girano in bici o scooter lo salutano con il cinque. Qui la domenica mattina ci sono squadre che giocano a baseball mentre dagli altoparlanti del campo suona musica latina. Qui al ritmo di “ciao bro” raggiungiamo una specie di cortile tra i palazzoni appena ristrutturati. Da una parte il quartiere tenta di resistere ai balconi che cadono a pezzi, dall’altra c’è una nuova area urbana che sta nascendo.

«La strada che racconto nei miei pezzi è quella degli amici che trovano nella droga una risposta all’insoddisfazione, è quella di chi ruba o accoltella perché nessuno bada al suo disagio – dice Wave – è un posto malinconico da cui voglio uscire. E la musica è l’unica possibilità che ho per riuscirci».

Wave e i suoi amici sono stati coinvolti nelle risse tra baby-gang al Pincio. Sono intervenuti per sedare questa guerriglia tra ragazzi che è frutto di frustrazione e noia, secondo il trapper. «Di noi giovani non serve solo parlarne come se fossimo delle creature da studiare. Abbiamo bisogno di aiuto e di qualcuno capace di fare luce sul nostro futuro».

Da Torpignattara a Trastevere

«Mi sveglio la mattina (Ah), colazione e schedina (Seh)/Campari, bira e di corsa alla partita». Sui gradoni della Curva Sud, dove in migliaia sostengono i giallorossi della Roma, Roberto Anzellotti ritrova un senso di comunità quanto mai necessario per scacciare i suoi demoni interiori. Lì, tra i gradoni, è facile incontrare un venditore che ti proponga una boccetta di Borghetti, il liquore al caffè da cui prende il moniker il rapper classe 1992.

«È il nome che usavo su Facebook», ci racconta quando lo incontriamo di domenica, sotto casa, nel quartiere di Magliana. Non c’è nessuna partita in programma. È Ugo Borghetti, timido ma sorridente, a mettersi in gioco. Si presenta in pantaloncini e t-shirt. Accanto a lui c’è Barrabravas, suo amico e collega trapper.

Gli ascoltatori restano sconvolti e affascinati dalla durezza e dalla cruda, viscerale umanità dei testi. Come in Campare di Campari, un testo – con cui abbiamo aperto il racconto – che descrive la vita del Vikingo, storico personaggio di Trastevere scomparso nel 2018.

Esistenze ai margini che raccontano di una Roma lontana sia dai palazzi del potere sia dalle raffigurazioni thriller degli sceneggiati che hanno creato un vero e proprio topos, da Romanzo Criminale a Suburra, dalla serie tv Baby al recente Enea, presentato a Venezia da Pietro Castellitto. Notti che scivolano tra vizi e strisce di coca, criminalità e ambizioni di potere.

Il rap di Borghetti esce dagli schemi di queste narrazioni ed entra nella sua vita, in esperienze in cui ci si ritrova un’intera generazione, travolta dall’ansia e dalle preoccupazioni. Ansia è un brano firmato da Ugo Borghetti con il rapper milanese Massimo Pericolo. «Il mondo è triste, fra’, per questo festeggio (Bitch)/ Queste ferite l'alcol le disinfetta»  è uno dei passaggi più significativi.

«Quella canzone – racconta Borghetti, tra una sigaretta e uno sguardo mesto – era diventata un meme. Poi la gente ha cominciato a scrivermi dicendo che si rende conto delle stronzate che si fanno».  Ma per Ugo parlare di salute mentale è un’attività delicata:   L’angoscia come fulcro dei suoi racconti, ma anche motore che attiva un percorso di riconoscimento e consapevolezza.

«Scrivo di getto, porto sulla carta quello che mi viene sul momento. Magari un giorno sono di un certo umore, prendo e scrivo», aggiunge il rapper. Che, nonostante l’amore per la città, è critico nei confronti di Roma. Quasi si sente annoiato: «Da quando sono ragazzino, girando per tutti i quartieri, da Torpignattara al centro di Trastevere, mi sento affondato. Ho assimilato un botto. Però la città ha tante sfumature che ti danno tutto».

Tor Bella Monaca

«Fuori dagli schemi/Con mille problemi/Come me/Come te». Rosa White arriva in un bar di Tor Bella Monaca, in un soleggiato sabato mattina, a bordo di una Smart dopo aver portato il brano Come me sugli schermi di Propaganda Live.

Il suo look è irriverente e smagliante. Ordiniamo un caffè, ha fretta perché le aspetta il turno in un fast food. Parla delle sofferenze con un certo ottimismo. Rinascere dalle ceneri è un altro mantra di uno dei suoi brani. Racconta a Domani: «Quando sei giù e vedi tutto buio, hai meno paura se sei con qualcun altro. Ho cominciato a far musica volendo essere una spalla per qualcuno. Nella musica ho sempre cercato risposte».

Vivere in periferia non è facile. Rosa racconta delle difficoltà di famiglie che non hanno lavoro, che non riescono ad arrivare a fine mese. Hanno bambini da sfamare. Crisi, disoccupazione e depressione coinvolgono giovani e adulti. La rapper ha scritto un brano, dal sapore raffinato neo soul, che si intitola Antidoto: «Incasso i bene i colpi tuoi/Tanto ho l’antidoto». Insomma Rosa White ha le sue stampelle per camminare nelle strade del disagio.

Essendo sempre sé stessi. «Sin da piccola mi sono trovata di fronte ad alcune scelte. Fino a un certo punto della tua età, sei quello che erediti dai genitori. Volevo suonare pianoforte, mi davano la pianola per giocare. Non potevo frequentare il conservatorio per i costi o la scuola di cinematografia. I miei non mi permettevano di frequentare il liceo artistico o il grafico. Mi dicevano di trovarmi un percorso che mi desse subito lavoro». Così ha frequentato ragioneria, sempre con la cultura del lavoro cucita addosso.  Ma ammonisce: «I soldi sono relativi a quello che pensi».

A Punta Sacra

Arriviamo a Ostia in treno, il paesaggio cambia nel finestrino: vediamo più verde, a tratti si intravede persino il mare. L’appuntamento con Chiky è a casa sua, all’Idroscalo. Qui il mare sventra lattine abbandonate sulla spiaggia e lamiere che, saltando nel vento, hanno lasciato tetti di case a guardare le stelle.
A sei metri dal protone d’ingresso di Chiky c’è Punta Sacra, lo spazio in cui il Tevere incontra il mare.

Questa lingua di terra ha visto sgomberi, gente che la esplora con un coltellino nella tasca, perché dopotutto “non si sa mai”, produzioni di serie tv che la animano per il tempo delle riprese e tentativi di rigenerazione in cui nessuno forse crede fino in fondo. Le abituazioni sembrano più scatole incendiabili al primo fuoco. Non hanno la robustezza delle costruzioni in cemento, ma fissano la propria natura di casa alle finestre da cui si vedono divani o altri pezzi di vita. Durante la notte è piovuto e le strade sono slalom di fango con pozze d’acqua profondissime.

È come se questo posto fosse dimenticato dalla città che ci gira intorno, e allo stesso tempo protetto da chi lo abita perché insieme sono branco e comunità allo stesso tempo. Chiky ci fa entrare, sta cucinando il minestrone. Ci sediamo intorno al tavolo mentre rulla una sigaretta. Si fa chiamare Chiky Realeza, perché nei suoi pezzi c’è la vita vera, quella che di strade lineari ne conosce ben poche, oppure “rapper sudamerisardo” per l’anima di origine cilena e sarda che lo rappresenta. Dopo un periodo in carcere ha deciso di metterci la faccia per l’idroscalo: «Qui mancano la fogna, l’illuminazione. I miei testi non sono fatti di barre, dentro ci trovate piuttosto richieste di aiuto per dare un’altra possibilità a questo posto».

Ai suoi compagni di cella ha dedicato il brano Via della lungara 29, in cui la galera «è quasi un centro estivo se sei un ragazzo, o la fine di tutto quando sai che non ti meriti altro se non la tua disperazione. Il carcere – continua Chiky Realeza – mi ha aiutato a capire chi volessi diventare. Oggi so che combatto per la musica perché col rap si possono iniziare le rivoluzioni, anche se la tua storia è fatta solo di razzismo, discriminazione e povertà. Io dall’idroscalo non mi muovo, anche se sono isolato, anche se ho paura: scrivo e mi salvo dalle ingiustizie».

Quando usciamo da casa sua, ci chiede di seguirlo camminando verso Punta Sacra. Ci arrampichiamo su un vecchio comodino abbandonato tra le piante selvagge dove si incastra ogni tipo di rifiuto: vediamo il Tevere che si arrende al mare, poi guardiamo Chiky e capiamo che lui di arrendersi non ne ha proprio voglia. E soprattutto che non si sta salvando da solo.


Le foto sono di Silvia Funari

© Riproduzione riservata