Karin Boye nasce a Göteborg, in Svezia, il 26 ottobre del 1900. La sua famiglia, colta e borghese, le può consentire un’educazione che assecondi la sua precoce indole artistica. Infatti Karin – lo scoprirà soltanto vent’anni dopo – è una poeta per vocazione.

Dalle nuvole alle profondità

Chiamata alla poesia da giovanissima, pubblica la sua prima raccolta – Moln cioè Nuvole – nel 1922. Le poesie di questo libro sono guidate da un malinconico sguardo che cerca risposte nel cielo, proprio come il Caprimulgo nel «blu che s’allontana eterno». Ed è in questa tensione verso gli astri che si consuma una sorta di preghiera, ma non religiosamente connotata, piuttosto collettiva, assoluta: perché è «quando i nostri dèi cadono / e stiamo soli tra i frantumi, / senza più appoggio per i piedi / come sfere nello spazio – / allora ti s’intravede un attimo, alta Bellezza».

La stessa indagine delle proprie profondità si trova in Gömda Land, Terre nascoste (1924), in cui convergono le più disparate influenze: la sapienza orientale e Tagore, il trascendentalismo e Walt Whitman, e poi, soprattutto, la cultura mitica scandinava. Infatti, sono questi gli anni in cui Karin si trasferisce a Uppsala dove studia letterature nordiche all’università. È così che in poesie come Asi ed Elfi prendono vita le creature mitiche dell’Edda: dèi che «cavalcavano sul ponte dell’arcobaleno» e spiriti cui obbediscono «tutti coloro che crescono come alberi selvatici».

Politica, amore e psiche

Oltre all’intensa attività letteraria, Boye si dedica anche all’impegno politico. La scrittrice infatti entra a far parte di Clarté, un movimento pacifista di impronta socialista, nato in Svezia nel 1922 come ramificazione di quello omonimo fondato in Francia. Nel 1927 Karin entra anche nella redazione della rivista del movimento, mostrandosi una delle più ferventi sostenitrici. Ed è proprio nel contesto di Clarté che incontra Leif Björk, un giovane intellettuale e attivista che sposerà nel 1929.

Il matrimonio però si esaurisce in due anni, e nel 1932 Karin si trasferisce a Berlino, dove tenta l’esperienza della terapia analitica (l’anno precedente aveva fondato Spektrum, una rivista con forti tendenze freudiane). Nella capitale tedesca la poeta incontra Margot Hanel: una giovane borghese che diventerà l’amore più intenso di tutta la sua vita. Tra le due si instaura un rapporto amoroso travolgente, ma, tra crudeltà e gelosie, durerà quanto «l’attimo – / quando i confini delle solitudini si cancellano», finendo per autodistruggersi. Nonostante la relazione fallita, le due saranno per sempre legate da un vincolo indissolubile: «Tu mia disperazione e mia forza, / tu mi prendesti tutta la vita che ho avuto».

Nel frattempo, Boye continua a scrivere, producendo numerose raccolte di poesie e romanzi; per citarne uno, il capolavoro distopico intitolato Kallocaina (1940). Nel 1935 esce Per l’albero, il suo capolavoro poetico forse più compiuto. Qui la connessione alla natura – sempre intesa come metafora mistica dell’esistere – si colora di tinte surrealiste: «La mia pelle è colma di farfalle, di ali in sussulto». E in quest’albero cui è dedicata l’intera raccolta, la critica scandinava ha sempre individuato la tensione verso le forze cosmiche originarie, il mistero della vita e della morte: «Certo che fa male quando i boccioli si rompono. / Perché dovrebbe altrimenti esitare la primavera?».

La gloria e gli incubi

La fama dell’autrice cresce sempre di più e, tra conferenze e letture, Karin si ritrova a viaggiare per tutta l’Europa; soprattutto riesce a realizzare il sogno di visitare la Grecia, la terra del mito per eccellenza. Negli stessi anni, si dedica anche all’insegnamento in un piccolo villaggio nella periferia di Stoccolma. Eppure, nonostante le numerose conquiste, la scrittrice deve convivere con un mostro che non la abbandona mai: la morte. Quella nera tristezza scivola nel sottotesto di tutte le sue poesie, connotandole di una vena cupa impossibile da cancellare: «Ma dov’ero e mi credevo muta, / udivo gemere la tenebra». Alcuni problemi di salute, lo scoppio della Seconda guerra mondiale, l’iniziale andamento favorevole all’Asse: questi fatti dolorosi aggravano la profonda tristezza di Boye, che aveva già tentato il suicidio in diverse occasioni.

Il 23 aprile 1941 la poeta lascia la sua abitazione di Alingsås per non farvi più ritorno: qualche giorno dopo, il suo corpo senza vita viene ritrovato avvolto nell’erica su una collina nei dintorni – «Se ascolto, sento la vita fuggire / sempre più rapida ora. / Quei passi quieti dietro – / morte, sei tu. / Prima eri lontana – / mi eri troppo cara. / Ora che non ho più nostalgia, / sei qui, ora». Soltanto un mese dopo, a togliersi la vita è anche Margot Hanel.

Quel che resta

Si spegne così una delle donne più straordinarie della poesia svedese, di cui tuttavia oggi possiamo leggere in italiano soltanto un romanzo e qualche decina di poesie. Sarebbe bello, quanto necessario, riscoprire il tono della voce di Karin Boye, inseguirla nei sentieri aerei e terreni, mistici e atroci, della sua poesia, dove lei stessa ha passato una vita a «seguire e seguire un fuoco bruciante / che fiorisce dalla tenebra».

Salva 

(da Nuvole, 1922)

Il mondo scorre da fango, vuoto lo riempie.

Ferite, che il giorno ha aperto, si chiudono, quando è sera.

Calma, calma inclino il capo

a una santa visione, il tuo ricordo che indugia.

Tempio; rifugio; purificazione;

santuario mio!

Sulle tue scale lontana la tenebra, salva,

serena come un bimbo mi addormento.

Le stelle 

(da Terre nascoste, 1924)

Ora è finita. Ora mi sveglio.

Ed è quieto e facile l’andare,

quando non c’è più niente da attendere

e niente da sopportare.

Oro rosso ieri, foglia secca oggi.

Domani non ci sarà niente.

Ma stelle ardono in silenzio come prima

stanotte, nello spazio intorno.

Ora voglio regalare me stessa,

così non mi resterà alcuna briciola.

Dite, stelle, volete ricevere

un’anima che non possiede tesori?

Presso di voi è libertà senza difetto

lontana la pace dell’eternità.

Non video forse mai il cielo vuoto,

chi dette a voi il suo sogno e la sua lotta.

(da I focolari, 1927)

Credo che la morte sia come te,

alta e pallida e diritta come te,

tempie ugualmente incurvate,

occhi di mare, occhi di lontananze come te

le stesse labbra chiuse nel dolore.

Sei la morte. Io sono tua,

tua la mano e tua la mente.

Hai stordito tutte le forze della vita,

cullato in un triste torpore

sogno e atto, che appena hanno provato l’ala.

Ma ti amo, mia morte,

tu mia lunga amara morte,

nella cui mano chiusa inaridisce la mia vita.

Tu mia dolce, dolce morte –

Ti benedico ogni istante che tormenti!

Il violoncello profondo della notte 

(da Per l’albero, 1935)

Il violoncello profondo della notte

scaglia nelle ampie distese la sua oscura esultanza.

Le immagini vaghe delle cose sciolgono la loro forma

                        in fiumi di luce cosmica.

I marosi, brillando lunghi,

si frangono onda su onda attraverso l’eternità blu notte.

Tu! Tu! Tu!

Spiegata leggera materia, schiuma fiorente del ritmo,

sospeso, vertiginoso sogno di sogni,

                        bianco abbagliante!

Un gabbiamo io sono, e su ali plananti

bevo beatitudine salata di mare

                        molto più ad est di tutto ciò che so,

                        molto più ad ovest di tutto ciò che voglio,

e sfioro il cuore del mondo –

bianco abbagliante!

Molte voci parlano 

(da I sette peccati capitali e altre poesie postume, 1941)

Molte voci parlano.
La tua è come acqua.
La tua è come pioggia,
quando cade attraverso la notte.
Mormora sottovoce,
scende brancolando,
lenta, incerta,
penosamente viva.

Trema come terra
dietro ogni rumore,
stilla e cola
contro la mia pelle,
morbidamente s’avvolge,
mi avviluppa,
riempie le mie orecchie

di ricordi sussurranti.

Voglio sedere in silenzio
dove non posso disturbarti.
Voglio abitare e vivere
dove posso udirti.
Molte voci parlano.
Attraverso tutte queste
odo solo la tua
cadere come pioggia notturna.

Fonti: K. Boye, Poesie, Le Lettere, 2018

NOTA – POETA O POETESSA?

In generale, spiega Vera Gheno in “Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole”, i linguisti consigliano di non utilizzare il suffisso -essa, in quanto storicamente usato per designare “la moglie di”, oppure per conferire una connotazione dispregiativa. È anche vero che è rischioso intervenire sui termini che sono già pacificamente nell’uso, come poetessa, appunto. In ultimo, tra poeta o poetessa, Alba Sabatini consiglia di utilizzare poeta (accompagnato dall'articolo femminile), in quanto foneticamente legato al genere femminile sin dalla sua origine latina, e in quanto associabile per analogia ad altri nomi femminili o epiceni (es: atleta). Si veda Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, estratto da “Il sessismo nella lingua italiana” a cura di Alma Sabatini per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna, 1987. La questione non ha una risposta univoca, importante è utilizzare queste parole consapevolmente.

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