La villa era enorme, malmessa.

No. Sembrava abbandonata. Da secoli.

Soprattutto il retro, mai visto tanta roba accatastata, lasciata a marcire. A guardare dentro quella montagna di rifiuti si potevano scorgere sdraiette per il mare, ombrelloni, un motore da motoscafo accanto a un tavolo da ping-pong, poi tante altre cose senza più nome. Oggetti scheletriti dal tempo, buttati uno sull’altro come corpi irriconoscibili. Fissare quell’enorme nulla mi metteva orrore. L’ammasso riempiva per intero una vecchia piscina a forma di 8, anch’essa decrepita. Al posto dell’acqua, quel mucchio di rifiuti lasciato a decomporsi, una patina nera a ricoprire tutto, la stessa patina che cresceva sulle mura della casa, in alcuni punti sputata fuori in rivoli veri e propri, una specie di asfalto liquido, nero, denso.

Tutto, malgrado fosse giorno, tutto di quella villa, di quella proprietà da ricchi, rimandava a una notte senza fine, senza sole a sorgere di nuovo.

Il giardino era in stato di abbandono come il resto, le piante secche accanto a quelle rigogliose, cresciute senza cura, ma quello che stupiva era la quantità d’animali in circolazione. Ebbi paura quando mi passò accanto ai piedi un istrice, con i suoi aculei minacciosi belli allargati, dietro di lui, o lei, tre cuccioli senza punte da esibire, simili a topi, solo più grandi e allungati. Poi cani, almeno quindici riuniti in un solo branco, guidati da un maremmano enorme, un pastore a capo di un gregge fatto di suoi simili. E poi gatti, un angolo della villa, dove una volta sorgeva un camino, era stato adibito da chissà chi a residenza per felini. I cuscini di un vecchio divano, anche loro ricoperti dal nero calato su ogni cosa, era divenuto il loro regno. Ne contai dodici, alcuni di razza, come un bengala addormentato così profondamente da sembrare morto.

Noi bambini fummo affidati a un ragazzo con la testa rasata, drogato, o pazzo, o entrambe le cose. Ci invitò a giocare assieme a lui con la polvere pirica, che poi a definirlo gioco ce ne vuole. Non ci disse come si chiamava, so che da una sacca di pelle iniziò a tirare fuori questi piccoli mucchietti di polvere nera, poi con l’accendino li infiammava. VOOOM. Il bagliore faceva chiudere gli occhi mentre il cuore prendeva ogni volta una rincorsa. Il ragazzo, a ogni fiammata, rideva come non si dovrebbe mai ridere, o come persona normale non ride.

A un certo punto iniziò a terrorizzare noi bambini. Faceva finta di mettere il suo mucchietto di polvere da sparo sulla testa del primo che gli capitasse a tiro, quello iniziava a correre e lui a inseguirlo, e ancora quella risata a squarciargli la gola.

A un certo punto, toccò a me, si avvicinò e mise sul mio capo la polvere. O meglio. Fece finta. Ero il quinto bambino con cui si divertiva a quel modo, ai primi quattro la polvere non l’aveva messa, li aveva sfiorati con un dito, niente di più. Il resto è sempre la paura a farlo. Lui fece il suo teatrino, urlò per dare il via all’inseguimento, ma io non mi mossi. Il ragazzo prese un mucchietto di polvere nera e la tirò su con il naso, la respirò come fosse aria. Mi disse: «Ora ti do fuoco veramente». Non gli risposi. Non per coraggio, solo per disattenzione. Dietro di lui, con le sue ali enormi, proprio in quell’istante atterrò un uccello enorme, le ali pesanti, gli occhi dell’animale più umani di quelli di tanti uomini, tristi, affaticati. Non so che nome avesse quel tipo di uccello.

Il ragazzo prese il mio silenzio per coraggio.

«Tu sei uno che conosce l’ABC della materia, ti dico un segreto». Mi diede una botta a una spalla per accendere il mio interesse, ma io continuavo a essere rapito dall’uccello con occhi da uomo. Poi gli prestai tutta la mia attenzione. Lui mi sorrise, il primo sorriso da umano, non da pazzo, o drogato, o entrambe le cose.

«Dentro, non mi fanno giocare perché io gli stati li conosco tutti a memoria, basta che il Maestro lo inizi a disegnare e io lo indovino. Diventerei più bravo di lui, diventerei io il maestro. Per questo mi tengono fuori, ad ammaestrare gli animali e i bambini».

Si avvicinò ancora di più al mio orecchio.

«Però a te, visto che conosci la materia, te lo dico, a quest’ora il maestro starà senz’altro disegnando l’Arizona».

Lo guardai come uno dei tanti animali che ci giravano attorno.

«Bambino senza testa, ti sto dicendo che se vai dentro, e ti metti a giocare, potrai vincere, e sono tanti di quei soldi che tu non ne hai idea, da comprare tutta la polvere da sparo del mondo».

Mi spinse verso la porta d’ingresso. Alla fine, entrai.

Senza principio né fine

La prima sala che mi accolse aveva le pareti ricoperte da teste di animali, e zanne, zanne di ogni tipo, da piccole a grandi, una gigantesca, lunga come una parete, la zanna dell’animale più maestoso mai comparso sulla faccia della terra. Sulle pareti anche mascelle di squalo, e altri denti di felini, enormi, altri affilati come coltelli.

Da lontano iniziai a percepire voci, poi urla, da qualche parte, in quella villa enorme, era pieno di adulti al colmo dell’eccitazione.

Alla prima sala ne seguì una seconda. Questa aveva le pareti ricoperte da fotografie, messe senza ordine, una sull’altra, centinaia, migliaia di fotografie ricoprivano le mura, senza volerlo alzai la testa, mi colse una specie di vertigine. Anche il soffitto era pieno di fotografie. Ebbi l’idea che non stavano lì per essere guardate, quanto per nascondere qualcosa. Che c’era dietro? Mi avvicinai a una parete, ne staccai una delle tante, in bianco e nero, sopra in bella foto due sposini sorridevano in direzione del fotografo. Dietro quella foto ce n’era un’altra. Staccai anche quella.

Ecco cosa nascondevano. Anche l’interno della villa era ricoperto dalla patina nera. Con un dito la sfiorai, quel tanto che basta per sentirne l’odore, saggiarne la consistenza. Una specie di muco appiccicoso, senza odore particolare. Mi pulii la mano su un divano rosso.

Un urlo disumano mi spinse a riprendere il camino dentro quella villa senza principio né fine. Continuai ad attraversare saloni, via via più spogli, l’ultimo, totalmente vuoto, aveva meravigliosi disegni sul soffitto, un angelo a braccia spalancate che sembrava scendere dal cielo per venire ad abbracciare chi lo stava osservando.

Finalmente arrivai alle persone.

Erano in cucina. Una cucina modesta. Grande, questo sì, ma dall’aria dimessa, dove, almeno a sentire l’aria, non si cucinava nulla da secoli.

Attorno a un tavolo ovale, seduti in modo composto, contai quattordici uomini e donne tutti molto vecchi, se non vecchissimi. Al centro del tavolo, su una sedia da re, o imperatore, un vecchio con capelli color rame, la faccia appesantita dal grasso, un paio di occhiali con le lenti spesse e l’atteggiamento da padrone della giostra. Se i vecchi seduti attorno al tavolo avevano pose composte, altrettanto non si può dire della marea di persone che gli stavano attorno in piedi. Almeno una trentina, tutti a spingersi, guardarsi di traverso, tutti a sgomitare per avvicinarsi il più possibile alla tavola e ai vecchi seduti.

Rimasi sconvolto quando in quella marea in movimento vidi mia sorella. Io vidi lei e lei vide me. A fatica si fece largo sino ad arrivarmi vicino.

«Che ci fai qui?»

Alzai le spalle: «Non lo so, quello che ci fai tu».

«Il MAESTRO STA PER DISEGNARE!».

Un ragazzo di età indefinita, con gli occhi neri come la patina che ricopriva per intero ogni cosa della villa, lo urlò a squarciagola, poi mise davanti all’uomo con capelli ramati e la faccia gonfia un foglio bianco, lui inspirò profondamente, poi, con un pennarello, iniziò a disegnare qualcosa, una specie di virgola allungata, poi iniziò a somigliare sempre di più a una “J” solo al contrario.

«IL CILE! IL CILE!»

Un uomo con occhiali da sole e orecchini, uno tra i quattordici seduti, si alzò in piedi e lo urlò a squarciagola. Si fece silenzio. Il vecchio che chiamavano maestro lo guardò a lungo. Poi annuì.

«Sì. È il Cile». Aveva una voce bassa, bassissima, appena udibile. Tutti applaudirono in direzione dell’uomo con occhiali da sole e orecchini, tutti lo festeggiavano, ma a parte lui nessuno era veramente felice.

Il maestro allungò le braccia sotto al tavolo, quando le tirò fuori aveva in mano due mazzette da 100 euro. Rimasi imbambolato, non avevo mai visto tanti soldi tutti assieme.

«Ecco centomila euro. Come da regolamento al prossimo giro diventeranno duecento»

Uno schiaffo fortissimo mi arrivò sulla testa, fortissimo, qualcosa di appuntito mi graffiò la pelle del cranio.

«L’anello!» Era la mano di mia sorella, e il suo anello d’argento a forma di rosa. Mi portai una mano sulla testa, quando la ritrassi era sporca di sangue.

«Si può sapere che cazzo ci fai qui, vai fuori». Mi prese per una spalla e iniziò a trascinarmi verso i tanti saloni che avevo attraversato: «Levati dai coglioni». Mi girai verso di lei, intanto alle sue spalle era apparso il ragazzo di età indefinita, quello che aveva urlato per conto del maestro, credo fosse una specie di aiutante, o allievo. Guardò mia sorella con una severità da fare paura.

«Non si parla con chi non partecipa al gioco». Le disse.

«È colpa mia, devo fare la pipì ma fuori nel giardino non riesco, ho paura degli animali». Anticipai mia sorella, e lei ne fu felice. Tra fratello e sorella le parole non sempre sono necessarie.

Il ragazzo rimase in silenzio, poi si allungò verso il pianale di una credenza, prese una chiave attaccata a un portachiavi in plastica rossa, di quelli con targhetta.

«Il bagno è in fondo al corridoio».

Intanto, dal centro esatto del capo, e giù lungo la fronte sino a percorrere il naso, quella che non poteva che essere una goccia di sangue mi attraversò il viso. Mia sorella tirò fuori dal reggipetto un fazzoletto di cotone e mi deterse la ferita che lei stessa aveva provocato.

«Io conosco una risposta, del gioco».

«COS’HAI DETTO A TUA SORELLA?»

Il ragazzo aiutante mi prese e mi allontanò da lei, tutta le persone attorno al tavolo mi guardavano. Io sono bravo a mentire, non c’è adulto che non mi creda, forse per via della faccia, o degli occhi.

«Le ho detto che con lo schiaffo mi ha fatto male». Una seconda goccia di sangue calò come la prima sino alla punta del naso.

Nessuno ebbe nulla da dire.

Solo mia sorella era rimasta come paralizzata. Ma sapeva perfettamente che non le era permesso parlare.

L’Arizona

Con gli occhi mi indicò il portachiavi di plastica rossa che avevo in mano. Sopra, sulla targhetta di carta bianca adesiva, qualcuno aveva scritto con grafia di vecchio la parola: “BAGNO”.

Il messaggio era chiaro. Mi stava dicendo di scriverlo lì.

Il ragazzo aiutante mi portò in bagno. Appena entrai mi venne da vomitare, ma più della puzza furono le fattezze di quel bagnetto microscopico a sconvolgermi. Il bagno era identico a quello del treno che prendevo da bambino per andare al mare. Solo i ricchi possono permettersi certi capricci, pensai.

Ma non potevo permettermi di perdere tempo, dovevo scrivere sul portachiavi, non so come e con che cosa, la parola “Arizona”. Iniziai a cercare ovunque, qualsiasi cosa che lasciasse un segno leggibile, arrivai a pensare di scriverlo con i miei escrementi, ma non avevo cacca da fare. La patina nera era presente anche nel bagno, iniziai a cercare qualcosa di appuntito, avrei usato quella come inchiostro, ma non trovavo nulla di appuntito per scrivere.

Da fuori qualcuno bussò con forza. Era il ragazzo aiutante.

«Un attimo, ho quasi fatto».

Tentai e ritentai, ma nulla di appuntito mi venne in soccorso. Aprii la porta del bagno, ora mi veniva da piangere, ma non potevo darlo a vedere.

«Fatti ripulire la fronte da tua sorella, poi vai fuori, non potete parlarvi.»

Il ragazzo aiutante mi scortò sino da lei, lei andò con gli occhi al portachiavi di plastica rosso, le bastarono i miei occhi lucidi per prendere atto del fallimento: non ero riuscito a scrivere niente.

Non mi disse nulla. Vidi anche nei suoi occhi una gran voglia di piangere.

Il maestro guardò il ragazzo aiutante, lui annuì:

«IL MAESTRO STA PER DISEGNARE!».

Lo disse senza staccare mai gli occhi da me e mia sorella.

Il maestro iniziò a tratteggiare un quadrato irregolare, con un lato pieno di punte e rientranze, mentre gli altri tre piuttosto regolari.

Il silenzio fu totale.

Tutti quelli che partecipavano al gioco, sia quelli seduti che quelli in piedi, si chiusero dentro se stessi alla ricerca della risposta. Io guardavo mia sorella, e intanto, con il pensiero, le ripetevo «Arizona. Arizona. Arizona». Ma la telepatia con noi non ha mai funzionato.

«Arizona. È l’Arizona.»

Di nuovo lui. Di nuovo l’uomo con occhiali da sole e orecchini.

Il maestro lo guardò, poi annuì.

Questa volta, a parte il vincitore, nessuno fece finta di essere felice, né applaudì. Io guardai gli occhi di mia sorella, gonfi di pianto trattenuto, poi passai in rassegna una a una tutte le facce dei giocatori, sia di quelli seduti che di quelli in piedi.

«Non è giusto, lui ha vinto due volte».

La mia voce non era prevista.

Il maestro mi guardò senza dirmi niente, per lui agì il suo aiutante. Mi prese per una spalla e attraverso una via diversa di quella che avevo fatto per arrivare in cucina mi portò a una porta finestra che dava sul giardino.

«Ora torna con gli altri a giocare» mi disse il ragazzo aiutante; quasi correndo tornò verso la cucina.

Io non feci in tempo a rispondergli. Un orso bruno, enorme, grande come un’automobile, forse anche di più, mi si piazzò davanti con il chiaro intento di entrare nella villa. Mi feci di lato e rimasi a occhi chiusi, cercando di restare immobile il più possibile, con il terrore di sentire i suoi denti, o artigli, affondare nella carne. Invece, non fece nulla, mi passò a fianco, al suo passaggio, vista la mole, mi spostò leggermente. Poi si inoltrò nella villa. Riaprii gli occhi e tornai a respirare.

Mi resi conto che l’orso, strusciandosi sul mio fianco destro, sia sui pantaloni che sulla maglietta, mi aveva lasciato addosso quella maledetta patina nera.

Poi mi sono svegliato.

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