La diretta dei David di Donatello su RaiUno, la rete ammiraglia Rai, ha da sempre uno share da carestia. È irresistibilmente, irrimediabilmente noiosa, e non è colpa di nessuno se non del fatto che, come ebbe a dirmi decenni fa un signore che fu a lungo il vero re del cinema francese, Daniel Toscan Du Plantier, lo star system del cinema italiano è stato maciullato definitivamente da Berlusconi e dalle sue Tv commerciali.

Chi si è sorbito quattro ore di programma ha avuto il piacere di scoprire in finale che Io Capitano è il miglior film italiano del 2024, secondo i votanti dei David. Sette statuette su 15 candidature, compresi fotografia, montaggio, produzione, suono, regia e effetti visivi. C’è sempre un effetto strabismo nei David, che sognano inutilmente di conquistare il prestigio di Oscar nostrani. Perché diavolo hanno affibbiato 19 nomination a C’è ancora domani, se non era il campione indiscusso del 2023? La verità è che si tratta di premi che, a prescindere dalle ricadute importanti sui finanziamenti pubblici futuri, non appassionano nemmeno gli addetti di settore. Le file di poltrone vuote negli ultimi ranghi del Teatro 5 di Cinecittà, quello sacro a Fellini, parlavano chiaro.

Non appartengo alla folla salita sul carro dei detrattori tardivi di Paola Cortellesi, la prima regista italiana a rastrellare quasi 37 milioni di euro solo da noi (in Francia sta già oltre i 2 milioni e mezzo). Se porti in sala 5 milioni e mezzo di spettatori, a meno di considerare il nostro un pubblico di decerebrati totali, qualcosa di nuovo e diverso devi pur essere riuscita a dirlo.

Ognuno ha avuto ragioni proprie per palpitare: la mia era il tributo a Ettore Scola e a Una giornata particolare. Adesso però è trendy iscrivere C’è ancora domani all’Accademia dei sopravvalutati, e andavano supportate a forza di David le dissennate contumelie fioccate, all’indomani degli Oscar, per aver scelto La zona d’interesse, contro Matteo Garrone, come miglior film internazionale.

Dunque la superfavorita Cortellesi si porta a casa appena sei trofei, uno meno di Garrone, ma meno rilevanti: il miglior esordio alla regia, l’attrice principale e la non protagonista (Emanuela Fanelli), la sceneggiatura originale e due David irrisori, quello del pubblico (cifre eloquenti alla mano) e quello dei giovani. L’anno scorso ha incassato, da sola, un terzo del totale di 120 milioni di euro rastrellati da 356 film (quanti inutili?) di produzione o coproduzione italiana complessivamente distribuiti. Se vogliamo scommettere sulla morte delle sale, per il nostro cinema ormai concepito all’ingrosso per le zone basse delle piattaforme - praticamente una discarica funzionale - continuiamo pure così.

I pochi film italiani che piacciono a me nelle cinquine non arrivano mai. Quest’anno ha fatto eccezione Palazzina Laf con i suoi tre David di squadra: Michele Riondino (che è anche regista esordiente) miglior attore, Elio Germano attore non protagonista e Diodato migliore canzone. Parlo di squadra perché i tre sono militanti, attivisti impegnati contro i disastri dell’Ilva di Taranto che hanno inventato insieme, sul posto, un contro-Primo Maggio operaio e alternativo. Palazzina Laf è uno dei rarissimi film italiani che negli ultimi anni si sono occupati di temi dimenticati come la fabbrica, il lavoro e il mobbing mascherato.

Rapito di Marco Bellocchio, per l’ovvia ragione che era l’unico film storico ambientato nell’800, ha incassato i classici premi tecnici (costumi, trucco, acconciature, scenografia) e la sceneggiatura non originale firmata da Bellocchio e Susanna Nicchiarelli: quota cinque. Tutta la torta spartita tra quattro film, e va sempre così: come e per chi può risultare appassionante la cerimonia dei David? Può sorprendere il premio per il documentario a Mario Martone, che è un signor regista anche quando si occupa del collega Massimo Troisi, con Laggiù qualcuno mi ama? È fin troppo scontato.

Quest’anno per “tirarsela” da Oscar hanno infiocchettato lo show di ballerine, baracconi felliniani e cantanti. Solo che agli Oscar le canzoni dal vivo sono quelle dei film, da noi sono pecette, extra squisitamente arbitrari. E l’ideona dell’anno è stata delocalizzare i premi tecnici, relegarli nei sottoscala o in spettrali spazi vuoti, lontani dal pubblico: viva i David di serie B, consegnati dai conduttori di serie B. Una grande trovata. Ufficialmente, l’obiettivo era quello di valorizzare tutte le strutture di Cinecittà. Ma il risultato era avvilente. Senza contare la "perla”, davvero sublime: nella “conta” degli artisti passati a miglior vita nel 2023 (rito anche questa rubato agli Oscar) c’era una doppia classifica. I Vip avevano diritto al ritratto, mentre i Signori Nessuno erano stati ammucchiati col solo nome, in colonne illeggibili. La sottoclasse dei morti.

Nessuno di noi, credo, è un fan sfegatato della ritualità. La carrellata dei premi è una pizza soporifera in ogni caso. Ma quando la devozione ai nuovi poteri si spinge fino a consacrare l’ombra lunga della Lega sul sistema-cinema nostrano, portando con grande lustro sul palco l’onnipresente sottosegretario Lucia Bergonzoni, l’amaro calice decisamente trabocca. I dati Auditel del programma non fanno storia. Se si trattasse di uno show a puntate, la seconda non andrebbe mai in onda.

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