Sono circa 900 i bambini e bambine ebrei deportati dall’Italia tra il 1943 e il 1945, la gran parte ad Auschwitz. La loro storia attraversa luoghi di internamento e transito creati dalla Repubblica sociale, prima di essere inviati nell’universo concentrazionario nazista. Uno di questi racconta una storia per molti versi esemplare di ciò che è stata la Shoah per l’infanzia. Tutti hanno sentito parlare, nei primi mesi del 2020, del paese di Vo’ Euganeo, alcune migliaia di abitanti in provincia di Padova, dove è stato realizzato il primo studio scientifico sugli effetti del Covid da parte di un’équipe medica diretta da Andrea Crisanti.

Mentre il New York Times racconta che l’Italia sta diventando un modello per lo studio del virus, le televisioni trasmettono ogni giorno le immagini di quelle case e di quella campagna ai piedi dei Colli Euganei di cui gli studenti italiani conoscono perché a pochi chilometri c’è la casa di Petrarca ad Arquà.

Pochi, forse nessuno, in quelle settimana ricordano invece una delle frazioni, Vo’ Vecchio, che rappresenta uno dei luoghi della memoria della deportazione ebraica dall’Italia. Vi sorge ancora oggi la grande villa Venier, dove nel 1943 sono alloggiate le suore Elisabettine, sfollate dal capoluogo, e che vivono in quell’edificio insieme a un fabbro e a sua moglie.

La deportazione

Campo di concentramento di Auschwitz/Foto LaPresse

Nel mese di dicembre vi giungono i primi dei 47 ebrei che alloggeranno nelle grandi stanze della villa per circa sette mesi. Sono tutti arrestati nella provincia di Padova, dopo che è stata emanata l’ordinanza n. 5 del 30 novembre 1943 del ministro degli Interni della Repubblica sociale italiana, Guido Buffarini Guidi, secondo la quale gli ebrei devono essere arrestati, internati in campi di concentramento e sequestrati i loro beni. E di questi campi di concentramento provinciali ne viene creata una trentina nel nord e centro Italia.

Si tratta in realtà di caserme, ville, carceri, alberghi, templi israelitici, scuole, cascine, semplici edifici e piccoli campi che hanno una breve vita ma che servono a raccogliere gli ebrei per la deportazione. Sono una sistemazione provvisoria, in attesa che si costruisca un unico campo di transito a Fossoli di Carpi, in provincia di Modena, che entra in funzione nel febbraio 1944.

Come ha scritto la storica Liliana Picciotto: «Con l’allestimento dei campi provinciali prima, di Fossoli poi, si entrò nella fase della piena responsabilità italiana nella persecuzione antiebraica fisica e generalizzata».

Tra San Vittore e la villa

Tra le carceri utilizzate con questa funzione c’è San Vittore a Milano dove transitano ben novantotto bambini in tutto il periodo della deportazione. Una parte arriva da altri campi di concentramento provinciali, alcuni sono catturati con i genitori mentre cercano di fuggire in Svizzera, altri ancora vengono arrestati nel capoluogo lombardo.

Metà di quei novantotto bambini è deportata ad Auschwitz con il trasporto che parte da Milano il 30 gennaio 1944 e che raccoglie una parte consistente degli ebrei rinchiusi nei campi di concentramento provinciali.  Sul treno vi sono 605 ebrei, tra cui una bambina che ha compiuto tredici anni a settembre e che si chiama Liliana Segre.

I 47 di Vo’ restano nella villa per circa sette mesi. L’edificio non è isolato e gli internati vivono, di fatto, nel centro dell’abitato: a due passi vi sono la chiesa parrocchiale e la piazza del paese, gli abitanti vi passano davanti e hanno rapporti continui con i prigionieri.

«A Vo’ eravamo ben lontani dal pensare – ha testimoniato Bruna Namias, una dei tre sopravvissuti – anche perché c’erano sette bambini, e se si fosse voluto scappare, si poteva scappare. C’era un piccolo cancello, che dava sulla campagna, che poi andava sulla strada. Io, per dire, sono andata a Padova un pomeriggio a farmi pettinare. Vedete lo spirito, la voglia… Ero ben lontana dal pensare».

Quattro di quei sette bambini sono i figli di Evelina Valabrega e sono sfollati con la madre e la nonna da Torino nella medievale città di Montagnana, vicino Padova: Ida è la più piccola con i suoi sei anni compiuti da appena un mese; Ercole ne ha sette, Anselmo nove e Pasqua undici.

I fascisti – perché sono loro ad aver istituito quei campi mentre le questure iniziano a darsi da fare nella caccia all’ebreo – li hanno arrestati il 23 dicembre. Gli altri tre bambini sono Sara Gesses, di sei anni, e i fratelli, originari di Lubiana, Eva e Pietro Kapper di nove e undici anni. Come gli adulti, anche i bambini hanno il permesso di uscire dalla villa e sono accompagnati dalle suore a giocare.

La storia di Sara Gesses

Gli internati di Vo’ Vecchio sono trasferiti a Padova il 17 luglio 1944. Prima di partire gli viene tolto tutto: anelli, soldi, orologi, vestiti. Dopo l’appello, sono fatti salire sui pullman: donne e bambini vengono condotti nel carcere dei Paolotti, gli uomini nella casa di pena di piazza Castello. Se ci può essere una storia più straziante delle altre, è quella di Sara Gesses.

Il padre è originario di Odessa, la madre è italiana. Ha i capelli bruni, a caschetto, occhi scuri, una simpatia contagiosa. Quando arriva la decisione di trasferire gli internati da Vo’ a Padova, la madre la nasconde nella villa ma le suore la consegnano ai militi fascisti, forse per il timore di rappresaglie.

La madre però non si arrende e al momento della partenza prova a metterla in salvo facendola scendere di nascosto dal pullman e le appunta un biglietto sul petto, con scritto: “Salvatela per pietà”. Sul biglietto è anche scritto l’indirizzo della cognata e qualcuno ve la conduce.

Per ragioni ignote, il tentativo fallisce perché poche ore dopo giungono i tedeschi e la portano via: «Eravamo in giardino – ha ricordato Clara Gesess – la tenevo tra le mie braccia, improvvisamente ho sentito le sue grida disperate: zia, i tedeschi, sono venuti a prendermi. E me la strapparono dalle braccia, la trascinarono via, e lei continuava a gridare: zia ti prego salvami».

Gli ebrei di Vo’ Vecchio rimangono a Padova due giorni, poi nel pomeriggio gli fanno credere di volerli rilasciare ma a condizione che rivelino dove andranno, da quali parenti.

La Risiera di San Sabba

I prigionieri, ormai consapevoli dei pericoli che le loro parole possono procurare in coloro che sono ancora liberi, tacciono, rispondono con vaghezza, mentono. Nella notte, due camion – uno per gli uomini, l’altro per le donne e i bambini – li conducono a Trieste dove li attende la Risiera di San Sabba.

È un grande edificio alla periferia della città nel quartiere, appunto, di San Sabba che si affaccia sul mare. La Risiera, centro della deportazione dell’Adriatisches Kustenland, non è solo un campo di concentramento bensì l’unico luogo, in Italia e nell’Europa occidentale, che vede funzionare dal marzo 1944 un forno crematorio.

«Sono rimasta soltanto sei giorni a San Sabba – ha raccontato Arianna Szörény, allora undicenne, deportata ad Auschwitz insieme ai genitori e a sei fratelli, e dei quali sarà l’unica sopravvissuta – vedevo quel grande camino fumare ma a me avevano detto che lì bruciavano le immondizie e anche i nostri bagagli. Di notte si sentivano grida e latrati ma erano coperti dalla musica che suonava in continuazione e ci impediva di dormire».

Anticamera di Auschwitz ma anch’esso luogo dello sterminio, dalla Risiera di San Sabba gli ebrei partono con sollievo. I bambini sono i più terrorizzati mentre le SS urlano e minacciano, rinchiudendoli brutalmente nei carri bestiame. I genitori li spingono sul treno, coprendoli dai colpi e non traducendo le parole tedesche.

I bambini di Vo’

Nessuno dei sette bambini internati a Vo’ Vecchio e giunti ad Auschwitz il 31 luglio 1944 sopravvive. Perché nel lager nazista è la sopravvivenza l’eccezione per l’infanzia. Se si calcolano i bambini ebrei deportati dall’Italia con un’età non superiore ai 14 anni, sono 776 e ne sopravvivono solo 25.

I quattro figli di Evelina Valabrega vengono uccisi all’arrivo, gli altri tre piccoli internati di Vo’ in una selezione, nelle prime ore del 3 agosto che Ester Hammer, un’altra sopravvissuta di quel gruppo di 47 ebrei, ricorda così: «Alla mattina è venuto Mengele, quel maledetto, e ha fatto la selezione. Ha detto: – Tu quanti anni hai? – guardava la persona – tu mettiti di là, tu mettiti di là. Senza neanche chiederti niente. Allora gli anziani, le mamme anche giovani che avevano bambini piccoli, li eliminavano subito, mamma e bambino. Quindi vecchi, mamme e bambini da una parte, le persone che potevano lavorare, che si presentavano ancora bene, dall’altra parte».

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