«Le parole contano. Tra sordo e non udente c’è un abisso. La prima afferma un’identità, la seconda sottolinea una mancanza. «Non udente mette l’accento su ciò che manca, l’udito, mentre persona sorda valorizza l’identità culturale, linguistica e visiva. Dire persona sorda significa riconoscere che la sordità non è un difetto da correggere, ma un modo diverso di percepire e vivere il mondo» spiega Diana Anselmo, attivista e performer sordo e queer, tra i fondatori dell’associazione Al.Di.Qua Artists, la prima in Europa fondata da artisti e artiste con disabilità.

Il collettivo si batte per i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo e per scardinare un immaginario collettivo dominato dall’abilismo. Con la lecture-performance Pas moi, andato in scena qualche giorno fa al festival Danae di Milano e in tournèe in tutta Italia (20 novembre Wonderland festival di Brescia, 21 novembre Scuola Piccola Zattere di Venezia, 30 novembre CIMAM Conference di Torino), l’artista ribalta la prospettiva dominante: la Lingua dei Segni diventa lingua primaria, mentre il pubblico udente legge i sovratitoli.

Il lavoro è il risultato di un percorso di ricerca documentaria e affettiva che racconta la violenza con cui, nel corso della storia, si è tentato di eradicare la sordità, attaccando anche la sua manifestazione esteriore, la Lingua dei Segni. L’avversione storica nei confronti della Lis ha radici lontane: nel 1800 il Congresso di Milano ne proibisce l’uso in tutta Europa, e solo nel 2021 viene finalmente riconosciuta come lingua a pieno titolo. La ricerca dell’artista parte da una ricerca antistorica, per dirla con Deleuze, e affonda nelle origini dell’industria cinematografica e musicale, rivelando come siano stati concepiti con un intento uditivo e fonocentrico: quello di “curare” la sordità. La prima proiezione cinematografica della storia (1891) servì a insegnare ai bambini sordi la lettura labiale della frase «Je vous aime» il primo registratore sonoro nacque da un’invenzione di una persona sorda, Thomas Edison. Pas moi restituisce voce e corpo a questa storia, che la Storia ha voluto tenere ai margini.

Lei fa parte di Al.Di.Qua. Artists (ALternative DIsability QUAlity Artists): ci spiega quali sono i diritti per cui vi battete? Qual è il legame tra la sua pratica artistica e l’attivismo politico per i diritti delle persone con disabilità?

Ci battiamo per il diritto all’accesso al mondo dell’arte da parte di artiste e artisti con disabilità. Nella mia pratica artistica cerco di innescare meccanismi che garantiscano l’accessibilità sia per il pubblico che per i lavoratori e le lavoratrici con disabilità. Nei miei lavori coinvolgo spesso persone sorde. È il mio modo, marxista, di cercare di ridistribuire le risorse…

Cosa vuol dire rendere un’opera accessibile? Pensa che le arti performative possano diventare un terreno di incontro tra mondi sensoriali diversi, senza che uno sovrasti l’altro?

Vuol dire pensare all’accessibilità dell’opera considerandola come un dispositivo drammaturgico che non lede la sua bellezza ma può essere uno strumento per accedere in modo diverso, fornendole dei piani drammaturgici impensati. Le arti performative, rispetto alle altre arti, pongono il corpo al centro, con forza inusitata, offrendo la possibilità di non considerarlo unicamente in un formato unico, normato.

Qual è il suo percorso artistico, da dove nasce e come si è sviluppato?

È nato tutto nel 2021 mentre frequentavo lo Iuav ed è iniziato con una lecture-performance Autoritratto in tre atti, in cui raccontavo la mia esperienza. La mia ricerca poi si è concentrata sulle origini dei primi dispositivi di registrazione e riproduzione del suono e dell’immagine da cui emerge quanto il cinema e l’industria musicale siano strettamente legate all’oppressione della comunità sorda.

Il titolo Pas Moi evoca un atto di sottrazione, ma anche di rifiuto.

Pas Moi (io no) si rivela nel suo essere una negazione di un certo sistema. Se “Je Vous Aime”, come prima proiezione in movimento della storia, aveva il valore “educativo” e pedagogico di insegnare ai sordi a pronunciare «vi voglio bene» (dopo aver loro proibito di utilizzare la lingua dei segni), Pas Moi è l’unica risposta da dare. E sul tema della possibilità di risposta, una possibilità negata perché la proiezione sul muro era essa stessa unidirezionale, si svolge l’intera struttura drammaturgica della performance.

Ci spiega meglio cosa vuol dire audismo e perché è ancora un concetto poco conosciuto?

L’audismo è la discriminazione sistemica verso le persone sorde, basata sull’idea che chi sente sia superiore. Una forma di razzismo. Da sempre la sordità è stata considerata come una malattia da guarire. Il sordo veniva reso “udente” facendo imparare il labiale, escludendo i segni. Nel 1880 sono state chiuse le scuole segnanti proprio per questo motivo.

La nostra cultura occidentale e cattolica ha paura della lingua dei segni perché si agisce con il corpo, la parte meno nobile di noi. La Lingua dei Segni è stata finalmente riconosciuta in Italia, ma c’è ancora oggi molta mancanza di accessibilità, in teatro ma anche in contesti come ospedali carceri e tribunali. A livello ufficiale dovremmo essere uno stato bilingue, ma ancora c’è moltissimo lavoro da fare.

C’è molta confusione su quali parole usare parlando di sordità. Quali sono per lei i termini esatti e perché è importante nominarli nel modo giusto?

Si parla di “lingua dei segni” perché si tratta di un sistema linguistico vero e proprio: ha regole grammaticali, sintassi, morfologia proprie, non sono “gesti” o “segni” improvvisati. Dire “lingua dei segni” valorizza il fatto che è una lingua a tutti gli effetti, mentre “linguaggio dei segni” rischia di ridurla a una forma generica di comunicazione, senza riconoscerne la complessità linguistica. Si dice persona sorda e non “non udente” perché “sorda” è il termine scelto e rivendicato dalla comunità stessa.

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