Quando in un tardo pomeriggio del 1963 Dino Buzzati presentò il suo nuovo romanzo alla libreria Einaudi in Galleria Manzoni, a Milano, una signora del pubblico chiese la parola: «Come ha potuto lei che ha scritto un romanzo come II deserto dei Tartari scriverne uno come Un amore!». Non si può dire fosse una domanda. Dino Buzzati, a quanto si racconta, non si lasciò scomporre da quella protesta e rispose: «Perché io sono un verme».

Dov’era finita la sua prosa misurata? Cos’era questo romanzo erotico, questo amore mercenario che rovina un intellettuale rispettabile fino a rivelarne le meschinità più sconce? Chi era quest’uomo che si strugge per una prostituta da ventimila lire? Alcuni allora lessero Un amore come un cedimento di Buzzati alla narrativa di consumo, sulla scia magari delle fortune commerciali della Noia di Moravia e della Lolita di Nabokov, o come una distrazione in un “momento di stanchezza creativa”.

Un critico lo considerò «un brutto romanzo d’intrattenimento». Buzzati aveva davvero scritto quel romanzo osceno e scabroso? Figlio dell’ultima discendente di un’importante famiglia doganale di Venezia, era cresciuto in una villa cinquecentesca: amava la montagna, la poesia, il disegno. Si dimostrò un meraviglioso cronista di nera, raccontò la guerra in Africa e seguì il Tour de France; fu critico d’arte, pittore e autore di uno dei primi graphic novel della storia.

A ventisette anni esordì con Bàrnabo delle montagne. E adesso Buzzati, quello che il 25 aprile 1945 aveva firmato la prima pagina del Corriere della Sera, Buzzati, quello che aveva vinto il Premio Strega con i Sessanta racconti, adesso lo stesso Buzzati ha scritto di uno scenografo cinquantenne che perde la trebisonda per una sgualdrina neanche maggiorenne?

Il suo libro proibito

Secondo Gabriel García Márquez ciascuno di noi ha tre vite: una pubblica, una privata e una segreta. Quella pubblica, va da sé, è quella che tutti conoscono; quella privata è quella che credono di conoscere le persone che ci vivono accanto, con le quali ci confessiamo e confidiamo; la vita segreta è quella che nessun altro a parte noi conosce. Un amore è il romanzo segreto di Buzzati, o ancora di più. Witold Gombrowicz teneva due diari, uno segreto e uno proibito. Un amore è il libro proibito di Buzzati.

«Mi illudo che chi leggerà il libro si renderà conto fin dalle prime pagine che a dettarlo non è stata la moda ma qualcosa di molto più serio», dichiarò Buzzati. L’8 dicembre 1962 raccontava a Mirella Delfini, in occasione di un’intervista televisiva, che gli era capitato più volte di trovare lo spunto per i suoi racconti nei sogni, e che spesso anzi aveva utilizzato «in pieno il sogno»: lo trascriveva, aggiungendoci soltanto il finale perché si sa che i sogni a un certo punto, di solito nei momenti di drammaticità più insostenibile, si interrompono bruscamente. Un amore, però, non gli arrivò in sogno.

Ha «il piglio del racconto autentico», scrissero, e del suo autore notarono che «non è mai stato così scoperto, vivo e inquieto», e che dimostrava coraggio, «raro coraggio di verità», portando luce al «sottobosco dei sentimenti, degli impulsi di vita, delle incertezze, degli smarrimenti esistenziali». Per Eugenio Montale Un amore è il miglior romanzo erotico italiano dopo Paolo il caldo di Vitalino Brancati ed è una «dissezione quasi anatomica di un sentimento amoroso che molti diranno patologico, ma che in realtà tutti gli uomini che non hanno gli occhi e il cuore foderato di una cotenna di lardo hanno almeno virtualmente provato».

Dino Buzzati, nell’introduzione all’edizione tascabile del 1965, scrive che, permettendosi di fare il presuntuoso, nel suo libro «c’è tanta autenticità che, sinceramente, in altri libri non conosco».

Nel marzo 1959 era andato in scena alla Scala il Jeu de cartes di Stravinskij, per cui lui aveva disegnato i costumi e il bozzetto, e il mese dopo, a Saint Moritz, avvenne l’incontro con S. C., la vera Laide. Annoterà sul diario su cui, a eccezione di una sosta tra il 1966 e il 1970, si confidava quasi quotidianamente: «L’unica, per salvarmi, è scrivere».

E proprio quell’anno esce un suo breve testo teatrale, dal titolo I suggeritori. Si tratta di un’opera di vocazione comica in cui compare per la prima volta Laide, «ragazza giovanissima, procace, calcolatrice». Due anni dopo Buzzati racconterà a un amico di aver scoperto allora per la prima volta cosa significasse «l’amore per la donna», con tutte «le gelosie, le lacrime, la passione, il desiderio di morire o addirittura di uccidersi, il piacere disperato di soffrire per un’ingrata, per un’infedele».

«Ciò che dobbiamo fare è rilassarci e lasciare che sia la spina dorsale a prendere il sopravvento. Benché si legga con la mente, la sede del piacere artistico è tra le scapole. Quel piccolo brivido che sentiamo lì dietro è certamente la forma più alta di emozione che l’umanità abbia raggiunto sviluppando la pura arte e la pura scienza». Vladimir Nabokov sosteneva questa tesi: che i libri vengano avvertiti, prima che dal cuore o dalla mente, tramite un brivido alla colonna vertebrale. Un amore freme e si agita lì, tra le scapole.

Come in ipnosi

È la storia ossessiva, sensuale, scabrosa di uno scenografo di buona fama che si infatua di una prostituta. Lui è Antonio Dorigo e lei è Laide. Lui è un sentimentale un po’ cresciutello, e lei è una giovanissima cinica e spietata. La loro è una relazione illecita, sporca, vergognosa. Antonio è un borghese, di buoni studi, le giuste frequentazioni. Lei è il capriccio, la giovinezza, la malizia, la sfrontatezza, il mistero, la notte. Per lui Laide è la vita che potrebbe vivere e che non ha ancora mai vissuto; per lui Laide è il mondo intero. Facile capire perché ne sia attratto fino allo stordimento.

Per via dell’educazione familiare la donna gli era sempre parsa una «creatura di un altro mondo, vagamente superiore e indecifrabile». L’indecifrabilità, dunque. A quanto ci dice la scienza è possibile individuare diciotto tipi di sorriso in un volto umano: ciascuno di noi, insomma, può sorridere in diciotto modi diversi, e si tratta ovviamente di sfumature, di minutaglie, di differenze magari impercettibili a noi stessi. E senza sapere che fossero diciotto, William Blake scriveva che, tra tutti gli altri, «c’è il sorriso dell’amore e il sorriso di inganno».

Tra questi due sorrisi della Laide, Dorigo ci vive un’intera vita: è amore, è inganno? E dove avrebbe imparato tutta quella malizia, giovanissima com’è? Antonio è come un un cavallo da giostra che suo malgrado vortica tutto il tempo fino a svanire. «Che cosa è stata Laide se non la concentrazione in una persona sola dei desideri cresciuti e fermentati per tanti anni e soddisfatti mai?».

Laide è aggressiva e sprezzante, attraente e lesta d’intelletto, che «nella sua consapevolezza di donna, stupefacente a quell’età, lei aveva detto: No, senza di me tu non sei capace di vivere» e fa di Antonio un burattino di cui lei persino malvolentieri regge i fili. «Tutto il mondo si riferisce a lei, senza di lei non c’è più senso nella vita nel lavoro nei discorsi nel mangiare nel vestirsi, tutto è assurdo e idiota senza lei».

Come in ipnosi, Dorigo sa che innamorarsi è sconveniente, se non addirittura immorale, ma lo stesso si innamora. «Solo alcuni sanno cosa sia l’amore. Se no, ce ne accorgeremmo», dichiarò in un’intervista. E così, l’intellettuale Dorigo, il borghese Dorigo, si genuflette alle bugie della ragazza, ai suoi giochi. Ne diventa l’autista, il patetico zerbino. E con i soldi, sempre con i soldi tenta di tenerla con sé. Per lei si fa prestare una Spider e per lei affitta un appartamento.

Laide diviene la sua amante ufficiale, ma sempre a suon di contanti e non bastano più le ventimila lire del loro primo appuntamento. «Senti. Io ti do cinquantamila lire alla settimana e tu mi prometti che ci troviamo due o tre volte alla settimana, per il resto non aver paura ti lascio libera non voglio neanche saperlo quello che fai». E così, invece che liberarsene, formalizza e rateizza la condanna come davanti a uno sportello bancario. Dov’è il Buzzati allegorico, l’enigmatico, il favolesco?

Molti anni dopo la presentazione in Galleria Manzoni in cui Buzzati si diede del verme, la vedova, Almerina Antoniazzi, a chi le chiedeva se la storia d’amore con quella donna a cui lo scrittore si ispirò per Laide fosse stata poi finalmente accantonata, lei rispose così: «Non lo so bene. Ma otto giorni prima della morte di Dino, invitai quella donna in ospedale. L’incontro fra loro due è avvenuto in mia assenza, io sono sparita. Poi ho chiesto a Dino se fosse contento di averla rivista. Lui mi rispose: È come se fosse venuta la mia stiratrice».

© Riproduzione riservata