Disco Boy, unico film italiano in concorso al festival di Berlino e vincitore di un orso d’argento per contributi artistici, ha come coprotagonista un giovane attore senegalese, Morr Ndiaje. Morr, come centinaia di migliaia di migranti, è scappato da una vita infernale, e come molti è arrivato in Italia a bordo di un barcone rischiando la vita.

Io e Morr siamo amici da molti anni. L’ho conosciuto a Siracusa dove lavoravo da qualche mese con un gruppo di autori e produttori, avevamo vinto un bando dell’Unione europea per costruire un progetto ambizioso: insegnare a un piccolo gruppo di migranti minori non accompagnati a raccontarsi attraverso dei video girati col cellulare.

Morr aveva 17 anni, era partito dal Senegal un anno prima, e attraverso la rotta libica era sbarcato in Sicilia. Vittima di una storia tribale (suo padre era stato ucciso da suo zio, che voleva uccidere anche lui), era stato abbandonato dalla madre e si era ritrovato a 12 anni a vivere per strada.

Malgrado avesse frequentato solo le elementari parlava un francese quasi perfetto, e i suoi video dal centro di accoglienza, in campo come giovane leader circondato da ragazzi di diverse etnie, erano spesso di natura politica. Denunciava la precarietà della situazione dei migranti, il razzismo degli italiani che in autobus non volevano sedersi accanto a loro; intervistava una famiglia palestinese fuggita da Gaza. Era l’unico tra tutti i ragazzi che partecipavano al progetto ad avere, malgrado la giovane età, la consapevolezza politica di cosa significa essere un migrante.

Una doppia vita

Dopo un anno il documentario era finito, e Morr, che ci accompagnava a presentarlo nei festival e nelle scuole in giro per l’Italia, raccontava la sua vita a una platea di coetanei. Per molti ragazzi ascoltare Morr significava essere esposti a un capovolgimento della narrazione corrente, per altri era semplicemente la scoperta di una realtà che non conoscevano.

Morr veniva intervistato, fotografato, e il suo interesse per la recitazione e per il cinema si accresceva. Erano delle brevi parentesi, poi tornava al centro di accoglienza in Sicilia dove si preparava per la commissione che avrebbe esaminato la sua possibilità di ottenere un visto. Doveva dimostrare la veridicità del pericolo dal quale scappava, non bastava aver attraversato a 16 anni il Mediterraneo. 

La proposta

È stato durante una di queste presentazioni che il regista di Disco Boy, Giacomo Abbruzzese, lo visto e ne è rimasto colpito. Gli ha proposto subito una parte. Eravamo insieme quando è arrivata la mail con la scena per il provino. Morr doveva interpretare il leader di un piccolo gruppo di guerriglieri sul delta del Niger che combatte contro lo sfruttamento dei territori da parte delle compagnie petrolifere che minacciano il suo villaggio. 

Morr ha letto la scena e ha detto che non poteva farla, perché non parlava bene inglese. Ha impiegato qualche giorno a spiegarci il vero motivo della sua reticenza. «Ho passato sei mesi in una prigione libica dove i nigeriani lavoravano come guardie per i trafficanti, per entrare in Italia senza pagare: ci maltrattavano, seviziavano, e a volte uccidevano qualcuno. Noi e i nigeriani venivamo entrambi da situazioni disperate, avevamo fatto lo stesso viaggio, condividevamo lo stesso scopo, eppure… Quelle immagini restano nella mia memoria. Mi hanno spezzato».

Non ne avevamo mai parlato prima. C’è sempre stato, dietro al carisma del ragazzo che si fa rispettare, un desiderio di andare avanti malgrado tutto, nutrendosi di un’innata sensibilità per la bellezza. 

Trovare bellezza

A pochi mesi dal nostro incontro, all’improvviso Morr è stato trasferito in un piccolissimo paese nell’agrigentino a 200 chilometri da Siracusa. Era disperato, ma non per questo aveva smesso di mandarci i suoi video. Per guadagnare lavorava nei campi per la raccolta delle mandorle. 

In un video scopriva frutti che non aveva mai visto: le olive, i limoni, i cachi, e le pire, come le chiamava il figlio del contadino, un bambino che gli faceva da guida a petto nudo attraverso un giardino che pareva un Eden. Oppure ci portava davanti a un vecchio casale di pietra, e commosso dalla sua semplicità, ripeteva «Quelle jolie petite maison, mais que c’est beau, ce mur est artistique….» («Che graziosa casetta, ma che bello, questo muro è un’opera d’arte»).

Rapito, la trovava di una bellezza che basta a sé stessa, come per Proust il piccolo muro giallo della veduta di Delft.      

Spaesato

Morr non voleva essere una vittima. Aveva iniziato a osservare l’altro da sé. Scandagliava il nostro mondo. C’è qualcosa di simile nello sguardo di un’artista e in quello di un migrante. Entrambi fotografano la realtà che li circonda e forse per questo a volte danno fastidio o fanno paura. 

Giacomo Abruzzese, il regista, vedendo i suoi video, deve essersene accorto. Morr dice: «Mi chiamava il poeta,  insisteva, perché vedeva in me una persona forte, un po’ incazzosa, ma anche fragile, ma io non ce la facevo».

A fargli cambiare idea è stato l’aver scoperto che il personaggio del film era dalla parte giusta della storia. «Ho capito che Jomo, il mio personaggio, vuole farsi rispettare nella sua terra, e combatte contro le persone che la sfruttano. Quando rapisce i due francesi che lavorano per la compagnia petrolifera non è per torturarli, ma per mandare un messaggio:  i ricchi non possono fare tutto quello che vogliono, devono rispettare i diritti di tutti. Per vivere in pace dobbiamo collaborare».

Sentendolo parlare ho pensato a quel ragazzino appena sbarcato in Sicilia che protestava perché non aveva né libri né quaderni per poter studiare.

Mentre Morr camminava sul tappeto rosso assieme al resto del cast ho pensato al suo lungo viaggio e a tutti quelli che non ce l’hanno fatta, ma soprattutto ho percepito il suo spaesamento; era ancora in un altro luogo. C’è un detto bambara che dice che un migrante arriva da un posto, sta in un altro ma non vive in nessuno.

© Riproduzione riservata