Parliamo di tennis. Ma prima di guardare ai massimi livelli e occuparci di grandi campioni è opportuno volgere lo sguardo verso il basso. La quarta categoria. Un mondo a sé, un inferno, dove vedi notai, avvocati, capitani d’azienda che rubano i punti a ragazzini di 14 anni, amicizie in frantumi, racchette spaccate. Il livello è quel che è, d’altronde la definizione “giocatore di quarta categoria” è piuttosto chiara, ma questo conta poco. Quell’inferno l’ho attraversato, per qualche anno, ma ora ne sono fuori. Sto bene. Sono 587 giorni che non gioco una partita di torneo. Sto bene davvero. Non ci ricasco. Di quel periodo ho ricordi per lo più spiacevoli, spesso legati a sconfitte incredibili contro avversari improbabili.

Ecco, nonostante io sia ormai fuori dal tunnel e giochi in partita solo di rado, questo mi continua ad accadere. Esiste un numero altissimo, forse infinito, di giocatori nettamente inferiori a me tecnicamente, e soprattutto stilisticamente, con i quali riesco regolarmente a perdere. Il maggior esponente di questo folto gruppo è Giovanni Veronesi. Un giocatore che, con un unico aggettivo, potremmo definire inguardabile, ma che incredibilmente, anzi più che incredibilmente, vince con me quasi tutte le volte che giochiamo.

Una sera di qualche anno fa Giovanni Veronesi mi ha invitato a cena a casa sua dicendo che ci sarebbe stato un ospite che sarei stato felice di conoscere. L’ospite era Adriano Panatta e sì, certo, sono stato contento di conoscerlo. Era uno dei miei miti da ragazzo, mio e di tanti della mia generazione.

È stata una serata molto piacevole, Adriano ha raccontato aneddoti divertentissimi, gli abbiamo fatto mille domande e la si poteva anche chiudere così, in gloria. Ma Giovanni, che non ha il senso del limite in assoluto, né quello dei suoi limiti tennistici in particolare, ha lanciato l’idea di giocare un doppio, buttata lì, ai saluti. Un doppio a cui avrebbe preso parte anche Sandro Veronesi, fratello di Giovanni, con noi a cena, anche lui affascinato da Adriano e per questo quella sera abbastanza silenzioso, e chi lo conosce può capire la grandiosità di questo particolare.

Un doppio

Panatta, uomo aperto a mille esperienze, ha subito accettato, come fosse una cosa normale, e una settimana dopo mi sono ritrovato in campo ad ascoltare da vicino “la bellezza del rumore di un colpo piatto”, come avrebbe detto poi Adriano nel suo splendido cameo nel film La profezia dell’armadillo.

In quello stesso periodo mi è successo di leggere Sei chiodi storti di Dario Cresto-Dina, un bellissimo libro sulla squadra e sulle vicende legate alla vittoria italiana della Coppa Davis in Cile nel 1976. Lì ho cominciato a pensare che questa storia meritasse un racconto per immagini.

Avevo apprezzato il documentario di Mimmo Calopresti La maglietta rossa, ma ritenevo che ci fosse ancora spazio per raccontare in maniera più approfondita non solo quella vittoria, con tutto il contorno politico, ma soprattutto quella squadra. I sei personaggi, i sei chiodi storti raccontati da Cresto-Dina, avevano già nel libro una statura da protagonisti, perché non l’avrebbero dovuta mantenere sullo schermo? I quattro giocatori – Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci, Tonino

Zugarelli – il loro capitano negli anni 1976-1977 Nicola Pietrangeli non erano irraggiungibili, e il direttore tecnico Mario Belardinelli, purtroppo scomparso, lo avrebbero raccontato loro. Mi era capitato di incontrare Nicola in occasioni più vicine al mondo dello spettacolo che dello sport, e ne avevo già apprezzato la brillantezza, peraltro nota. Quindi mentre cominciava a girarmi in testa questa idea, Alessandro Vannucci, un caro amico comune, mi ha portato a conoscere Corrado Barazzutti.

Ero pronto a incontrare un uomo chiuso, freddo, di poche parole. Tutto il contrario. E in mezzo a tutto questo contrario a un certo punto Corrado mi fa «giochiamo? Hai la roba da tennis?”. Ecco, nonostante io sia ormai lontano da qualsiasi forma di ossessione per questo sport, distante dal rischio di dovermi affidare alle cure di un buon analista per capire finalmente a quale trauma infantile addebitare quella lunga lista di sconfitte assurde, e al contrario viva ora il tennis con sano, assoluto distacco, quasi con disinteresse, ecco, io ho SEMPRE la roba da tennis, lì in macchina, nel bagagliaio che a questo serve, o no?

Giocare, lo so, è una parola grossa, ma almeno un lato del campo la merita, e quindi, dopo aver giocato prima con Panatta e poi con Barazzutti non sono riuscito a fermarmi. Sempre nel libro di Cresto-Dina avevo letto di Zugarelli maestro al Circolo Tennis Paolo Rosi. Ci sono andato.

Con un impegno, una dedizione e un atteggiamento che fanno pensare più a un serial killer che a un appassionato di tennis, ci sono andato e gli ho chiesto di darmi qualche lezione. Forse non c’è stato quel salto di qualità che nel mio tennis prima o poi arriverà, ma da allora posso dire, e dico spesso, di aver giocato con tre dei quattro componenti di quella mitica squadra.

Ho saputo solo dopo che Paolo Bertolucci fa un punto d’orgoglio di non aver più giocato da quando ha smesso col professionismo, e questo rende più difficile completare il mio ormai evidente disegno. Ma intendo dedicare tempo nei prossimi mesi a convincerlo che potrebbe essere molto bello dopo tanti anni riprendere la racchetta e scambiare qualche colpo, a prescindere, assolutamente a prescindere da chi ha di fronte. Ce la farò.

La vita della squadra

Nel frattempo, l’idea di fare qualcosa su quella vittoria si era un po’ allargata e mi sembrava interessante raccontare tutto l’arco di vita di quella squadra, grosso modo gli anni ’70, con un’attenzione particolare agli anni dal ’76 all’80. In quei cinque anni la squadra italiana raggiunge la finale quattro volte. Troppe per essere dovuto a un tabellone favorevole, o a una rinuncia, o anche a un exploit.

Significa essere fortissimi, significa essere stati in quegli anni la squadra più forte del mondo. Approfondire l’argomento di un progetto è una cosa che da produttore mi succede abbastanza spesso, ma qui ho capito che mi ero spinto troppo in là e che questa volta non avrei cercato un regista a cui affidare il lavoro, ma sarei andato avanti io stesso. Ho quindi chiesto a Sandro Veronesi di partecipare alla scrittura.

Sandro non è soltanto, si fa per dire, uno degli scrittori più importanti in circolazione, due Premi Strega e chi più ne ha più ne metta, ma è anche un grande conoscitore e appassionato di tennis. Vive però, tennisticamente parlando, in una dimensione parallela, metaverso si direbbe oggi, dove elabora e purtroppo cerca di mettere in pratica teorie che si avvicinano più alla fantascienza che allo sport. Spinto dal suo amore, che pur condivido, per il serve & volley, non può però trattenersi dal giocarlo sempre e ovunque.

In un incontro dove eravamo insieme contro suo fratello Giovanni e Panatta, e dove non abbiamo fatto neanche un game, a un certo punto Adriano ha fermato la palla e con molto affetto gli ha detto: «Sandro, io capisco che tu batta e scenda sulla prima e sulla seconda, anche se la seconda la tiri a due all’ora, ma almeno, ti prego, non me la mettere sul dritto…».

A noi si è aggiunto Lucio Biancatelli, ed è con loro due che ho preparato le diciassette interviste che ci sono servite a realizzare una docu-serie di oltre cinque ore, divisa in sei puntate. Il montaggio però fa letteralmente a pezzi le interviste, le intreccia, le combina col materiale di repertorio, è una vera riscrittura, tanto che il montatore Giogiò Franchini è entrato a pieno titolo tra gli autori. È venuta quindi l’idea, non a me, di proporre quasi nella loro interezza le interviste ai principali protagonisti di questa storia. Queste cinque interviste sono in effetti il cuore di questo lavoro.

A ognuna sono state dedicate due giornate piene. La prima è stata quella a Nicola Pietrangeli, poi Zugarelli, Barazzutti, Bertolucci e per ultimo Panatta. Personalmente le avrei presentate in questo stesso ordine, ma la casa editrice ha deciso che narrativamente era meglio una sequenza diversa e non ho visto margini di trattativa. La memoria ha regole sue, si sa. È normale non ricordare fatti anche importanti accaduti cinquant’anni prima.

È anche normale che a volte la memoria possa edulcorare, migliorare o romanzare quanto è realmente accaduto.

Questo testo è estratto dal libro Una squadra, in uscita il 12 maggio per Fandango. La docuserie omonima sarà al cinema dal 2 al 4 maggio e dal 14 maggio su Sky e Now.

© Riproduzione riservata