È stato un attimo ma l’ho notato: per una frazione di pensiero, il mio cervello ha esitato prima di considerare plausibile l’immagine nello schermo. Il mio cervello è quello di un maschio, bianco, eterosessuale, di mezza età. Non boomer ma comunque privilegiatissimo.

L’immagine è quella di una donna, bianca, anziana, di città. Ha quasi novant’anni. È seduta in poltrona. L’inquadratura le accarezza il volto, con un primissimo piano intimo. I capelli da anziana signora, né lunghi né corti, di quel biondo non appariscente. Un filo di trucco, sulle labbra, sugli occhi brillanti. Lo è stata, lo è ancora, bella. Giacca scura. Le mani delicate, macchiate dal tempo, senza smalto, sono beneducatamente conserte sulla gonna di una tinta che richiama il borgogna del foulard di seta al collo. Tutto in lei irradia perbenismo e così il mio cervello, istintivamente (un istinto pavloviano, che arriva da lontano, vecchio come la storia che ci hanno sempre raccontato, tutta al maschile), ha un attimo di smarrimento prima di accettare che quell’anziana signora, così perbene, sia anche una musicista all’avanguardia.

Esploratrice di feedback, musique concrète e sintetizzatori già negli anni Cinquanta, Eliane Radigue è stata una pioniera della musica elettronica quando ancora non si chiamava musica ed era vista con scetticismo, figurarsi poi se a suonarla era, addirittura, una donna.

Radigue è una delle dieci protagoniste del documentario Sisters with transistors della regista franco-statunitense Lisa Rovner, uscito a fine aprile. La voce dell’artista Laurie Anderson ci accompagna tra le storie di queste precorritrici che hanno contribuito a creare un nuovo mondo sonoro e culturale, incuranti della diffidenza, dei pregiudizi e di quel discredito doppio: per i loro suoni e per il loro non essere maschi. Sono andate dritte per la loro strada. La strada nemmeno esisteva. Hanno dovuto sfondare non soffitti di vetro ma muri di cemento. Hanno fatto la storia e poi, come spesso accade quando la storia la raccontano gli altri, sono state dimenticate. Non è un caso che il mio cervello di maschio, bianco eccetera, avesse in memoria nomi tipo Karlheinz Stockhausen, Luciano Berio, NEU!, CAN, tutti maschi. Mai sentite nominare Clara Rockmore, Delia Derbyshire, Daphne Oram, Bebe Barron, Pauline Oliveros, Marianne Amacher, Wendy Carlos, Suzanne Ciani, Laurie Spiegel.

Suonare l’aria

Questo documentario non solo fa giustizia, restituendo il posto che spetta loro nella storia della musica, ma è importante e utile, prima che bello, perché aiuta a capire cosa vuol dire non essere maschi.

Il mio cervello, ad esempio, ha tentennato davanti all’immagine dell’anziana signora, perché al suo posto si aspettava un anziano signore. Non aveva mai visto ottantenni perbene che sono anche musiciste all’avanguardia. Ora invece ha visto: donne come Clara Rockmore, che pizzica l’aria in abito da cocktail nero, sopra le righe con sprezzatura sorridente, come il personaggio di un film di Wes Anderson ispirato a un racconto di Stefan Zweig. Nata nel 1916, suonatrice d’aria negli anni Trenta, quando il suo talento di violinista prodigio incrociò quello del fisico Léon Theremin e, soprattutto, l’omonimo strumento elettronico da lui inventato, il theremin, che va suonato senza essere toccato, accarezzando l’aria vicina alle due antenne che spuntano ai lati della scatoletta di legno.

Assai diversi gli abiti (severi) e il contesto (la gloriosa Bbc degli anni Quaranta e Sessanta), in cui si mossero Daphne Oram e Delia Derbyshire che, mentre coccolano con gli occhi quelle abnormi macchine da mille e cinquecento chili, zeppe di manopole e cavi, spiegano il funzionamento dei primi sintetizzatori.

Avevano dimestichezza con la tecnologia, erano anche matematiche, come Derbyshire, scienziate, ricercatrici, studiose di psicoacustica come Maryanne Amacher.

E là fuori, tremebondi, dicevano: «Quella cosa non è musica!» (e precedentemente: «Quel pisciatoio capovolto non è arte!»). Ma loro, niente, incuranti. Partorirono sonorità che non venivano da nessuna parte. Suoni senza un passato e già nel futuro. Non a caso fu il cinema di fantascienza ad assoldare Bebe Barron che, negli anni Cinquanta, componeva colonne sonore manipolando i suoni generati da circuiti che suo marito sovraccaricava. La più famosa, per Forbidden Planet, fu un tale successo che il sindacato dei musicisti si prese paura («Le macchine ci rubano il lavoro!») e impose che, nei titoli di coda, quella cosa non fosse chiamata “musica” bensì “tonalità elettroniche”.

Una storia di silenzio

A modo loro, furono tutte femministe. Femminista attivista fu Pauline Oliveros che teorizzò i concetti di “ascolto profondo” e “consapevolezza sonora”, e creò brani che si evolvevano lentamente “chiedendo” all’ascoltatore tempo e impegno, come le suite, quasi immobili, composte da Eliane Radigue. Altra storia rispetto alle rivisitazioni di Bach suonate col sintetizzatore da Wendy Carlos, o ai jingle pubblicitari con cui iniziò la sua carriera Suzanne Ciani, richiestissima dai Mad Men statunitensi. E poi Laurie Spiegel, che ribaltò l’idea che la controcultura si era fatta dei primi computer (pessima, in quanto usati da banche, esercito e assicurazioni) trasformandoli in strumenti musicali grazie a un software creato da lei.

«La storia delle donne è stata una storia di silenzio» dice Laurie Anderson. Hanno dovuto lottare per far sentire la loro voce (i loro suoni), rompere quel silenzio. Si sono mosse in un mondo fatto a misura degli uomini (per dire: le chitarre elettriche sono state create per un corpo maschile, presunto universale. Solo nel 2016 la musicista St. Vincent, di corporatura non esattamente virile, ha firmato un modello leggero e sottile che, per esempio, lascia «spazio per un seno o due», come dice lei).

Pioniere, non avevano modelli. Modelli lo sono diventate. Per ragazze che conoscono i loro nomi e la loro musica e che, con forza, determinazione, coraggio, fiducia in loro stesse e nel proprio talento, oggi stanno iniettando nuova linfa nella musica contemporanea, soprattutto elettronica. Tra loro, anche tre ragazze italiane di grande talento che hanno accettato di parlare con me di questi temi.

Alla batteria

Tutto è iniziato un giorno di fine aprile quando, su Radio Raheem, ascoltavo Personal Trainers On Instagram, il programma della dj Beatrice Finauro, fine intenditrice di musica nonché amica: le ho fatto i complimenti per un gran pezzo da lei proposto, che Shazam mi ha svelato essere dei Tomaga. Un duo londinese, mi ha spiegato Finauro. «La batterista è un genio assoluto», ha aggiunto. Non esagerava: Valentina Magaletti è una delle migliori batteriste in circolazione, suona jazz, elettronica, musica sperimentale. Ha collaborato con tantissimi artisti (cito solo Nicolas Jaar, Thurston Moore e Bat for Lashes), oltre ad avere ancora più progetti suoi (mi limito a Tomaga, Vanishing Twin, Holy Tongue, Avvitagalli e al suo live al Cafe Oto per Blume Editions). «Ed è pugliese», conclude Finauro per titillare un mio in realtà inesistente campanilismo regionale: viene da Bari e la passione per la batteria, mi dice lei stessa, «è nata con i video di Dj Television, con le Bangles, le Bananarama…».

Per Magaletti il suo strumento è una parte di sé «che si esprime in un altro modo. Suonarla è come parlare. Non mi delude mai: c’è sempre un modo diverso di raccontare storie con la batteria». Una l’ha raccontata accarezzando, con spazzole e bacchette, una delicatissima batteria di porcellana, realizzata dall’artista Yves Chaudouët, per sfatare l’idea di uno strumento che, secondo un immaginario machista, richiederebbe forgza fisica per essere suonato. Batteria fragile, si chiama il progetto, e inizialmente il mio cervello di maschio, bianco, eterosessuale, ha la bella pensata di scrivere un pezzo sulle “donne che suonano la batteria”, un’idea la cui grossolanità mi viene rimproverata, nell’ordine, da Finauro, dalla mia ragazza e infine da Magaletti stessa che, in video da Londra, coccolando il suo gattino di nome Ashby («anche se è maschio, in omaggio a Dorothy Ashby, la mia artista jazz preferita. Ho sempre avuto “gatti jazz”, prima c’era Mingus»), mi fa chiaramente capire che di questo luogo comune non ne può più: «La batteria è associata all’uomo perché la cultura italiana è sessista. In Giappone ci sono tante batteriste eppure non sono viste come fenomeni da baraccone. Quando vado in tour in Italia, Spagna, Portogallo sento spesso commenti tipo “per essere una donna sei proprio brava”. Io non voglio sentirmi un’attrazione da circo: siamo artisti».

Donne che suonano

Mi rimproverava, già cinquant’anni fa, Pauline Oliveros che, nel 1970, scrisse un articolo per il New York Times intitolato And Don't Call Them “Lady” Composers. E lo fa, oggi, anche Marta De Pascalis, quando le chiedo quali sono gli ostacoli per una donna che, come lei, fa musica elettronica: «Ad esempio dover rispondere a queste domande. Essere tokenizzate, strumentalizzate, targettizzate, etichettate come “donne che suonano” invece che come artiste. Per me è un insulto. Un gossip da rotocalco morboso». De Pascalis è una raffinata compositrice di musica elettronica. Il suo ultimo album, Sonus Ruinae, trasporta in altre dimensioni, evoca calma e turbamento: «Cerco di arrivare con i suoni dove le parole non arrivano, di descrivere mondi che lo sguardo non può raggiungere». Nessun rimprovero quando le chiedo se, per una donna, è più difficile affermarsi nell’industria musicale: «Se parliamo dell’ambito artistico non credo. Se invece parliamo di mestieri quali il fonico, l’ingegnere del suono o il produttore, c’è ancora un divario abissale».

La profondità dell’abisso è resa bene da un numero: due. Stando al sondaggio annuale della Annenberg Inclusion Initiative della University of South California, infatti, solo il 2 per cento dei produttori è donna (il 21,6 per cento degli artisti e il 12,6 degli autori). Basta quel due per immaginare quanto talento ha e quanto ha dovuto impegnarsi Marta Salogni per diventare una delle produttrici più richieste a livello internazionale (mi limito alle collaborazioni con Björk, Animal Collective, Holly Herndon, Nyx, The Xx, M.i.a.). «Non è un luogo comune», mi racconta, «che noi donne non solo dobbiamo dimostrare di saper fare un lavoro ma anche di saperlo fare meglio degli uomini». Un lavoro, il suo, che richiede sia enormi competenze tecniche che enorme sensibilità musicale per «tradurre l’idea dell’artista in un suono». Dopo le superiori, Salogni è volata a Londra, lasciando il paesino sul lago d’Iseo dove è cresciuta, e Brescia, dove ha imparato il mestiere, sul campo, aiutando il tecnico del suono, e suo mentore, Carlo Dall’Asta. Anche lì, come in Italia, ha dovuto sopportare «gli sguardi stupiti degli artisti che, dietro il mixer, o in sala di registrazione, si aspettavano il solito maschio quarantenne e, invece, si trovavano davanti una ragazzina: spesso mi scambiavano per un’assistente e si guardavano attorno, in cerca dell’ingegnere del suono. Oggi sono loro a chiamarmi». Salogni, come si intuisce, non si è scoraggiata: «Non volevo abbattermi ma abbattere questo soffitto di vetro. Sapevo che il problema non era mio ma loro. Non dico che mi abbia fortificata, perché ne avrei fatto a meno, ma sapevo che prima o poi, con perseveranza, ce l’avrei fatta perché avevo il cuore e la testa nella giusta direzione. A darmi forza è stata la comunità che avevo attorno».

Diventare esempi

Salogni fa quello che può per aiutare donne e persone non binarie che vogliono fare il suo lavoro, ad esempio partecipando a seminari e masterclass non profit pensati per loro (mi limito a citare womenproducemusic.org, shesaid.so, girlsrocklondon.com, rebalancemusic.com, womensaudiomission.org, omniicollective.com): «La solidarietà femminile è molto importante, combattiamo tutte per la stessa causa. Anche se le opportunità di entrare in questa industria sono poche, penso che essere donna, far parte di una minoranza, vada oltre l’idea di concorrenza. Farsi la guerra non ha senso: più che la competizione voglio alimentare l’idea di comunità».

L’obiettivo è arrivare all’uguaglianza. Oggi, dopo 15 anni di carriera, Salogni è felice di vedere un ricambio generazionale: «Anche grazie ad articoli come questo, che creano modelli di comportamento che possono aiutare altre donne. Come è capitato a me, quando, appena arrivata a Londra, mi imbattei in un articolo sulla produttrice Leslie Ann Jones: sapere che lei esisteva mi ha dato forza, vedermi riflessa in un’altra persona mi ha dato fiducia nel futuro. Oggi sono a mia volta un modello e mi sento responsabile: non voglio solo prendere ma anche dare».

Essere un esempio è importante anche per Magaletti: «Chi se ne frega di andare in classifica o essere seguita dai paparazzi! Per me l’apice del successo è la ragazza che, dopo un mio show, viene da me e mi dice “Ti ho vista suonare la batteria e voglio suonarla anch’io”. È questo che mi fa sentire un’artista importante». De Pascalis ha una visione più olistica: «Coabitiamo tutti lo stesso pianeta e, in quest’ottica di convivenza, siamo tutti un modello gli uni per gli altri. Mi risulta quindi difficile distaccarmi da questa prospettiva e vedermi come un modello per, peraltro, solo una categoria di persone che chiami “ragazze”».

Una storia dimenticata

Prima di essere prese ad esempio, però, è necessario essere prese sul serio: se per De Pascalis non è stato un problema («Al contrario, grazie agli altri sono riuscita a convincere il giudice più severo, me stessa»), sia le protagoniste di Sisters with transistors, ieri, sia Magaletti e Salogni, oggi, hanno faticato. Magaletti, ad esempio, ha lasciato Bari perché aveva suonato praticamente con tutti i jazzisti della scena locale, anche se, puntualizza, non era «mai stata presa troppo sul serio: ero “la ragazzina che suona la batteria”. Poi vai a Londra, suoni con Thurston Moore e allora sei bravissima».

Eppure per nessuna delle tre si può parlare di “fuga” dall’Italia: Salogni è andata a studiare a Londra su consiglio del suo mentore, De Pascalis è volata via da Roma a vent’anni perché voleva crescere altrove. «Berlino ha un suono giovane e arabo, occidentale, demodé anni Ottanta, di basse frequenze che riecheggiano da lontano, trasportate dal vento, e il silenzio muto della neve», risponde quando le chiedo che suono ha la sua città, ispirato dagli studi di Maryanne Amacher che registrava i suoni urbani e si rese conto che ogni luogo ha un proprio tono di sottofondo («Boston ha un Fa basso, New York un Mi basso»).

Tutte hanno dovuto scontrarsi con pregiudizi. Ad esempio, ricorda De Pascalis, «dare per scontato che, essendo donna, non abbia conoscenze tecniche competenti». Un’idea totalmente infondata che, però, in Italia influisce sulle decisioni delle ragazze: solo il 18 per cento sceglie corsi di laurea in materie scientifiche (nel resto del mondo sono il 35 per cento). Eppure è proprio la tecnologia la chiave per rispondere alla domanda: perché le donne hanno avuto un ruolo così importante nella storia della musica elettronica?

«La tecnologia», ha spiegato Laurie Spiegel, «è un potentissimo strumento di liberazione femminile»: in un mondo dominato dagli uomini, l’attrazione delle donne per la musica elettronica è stata naturale, perché questa permetteva a chiunque di comporre qualcosa e presentarla al pubblico direttamente, senza dover ottenere l’approvazione degli uomini che controllavano radio, case discografiche, sale concerti. «Finalmente», conclude Spiegel, «quello che c’era nella nostra testa poteva essere ascoltato anche dagli altri».

Ne ha scritto anche l’artista David Byrne, secondo cui il theremin e i sintetizzatori «non hanno una storia, sono svincolati da una tradizione musicale o da una cultura particolare: i bip e i gorgoglii che emettevano non rappresentavano lo sviluppo di alcuna tradizione esistente, e così potevano essere incredibili strumenti di liberazione».

Eppure sono state dimenticate. Hanno fatto la storia della musica elettronica ma poi ne sono state escluse. In questo caso basta pensare a chi, finora, l’ha raccontata, la storia. Secondo Pauline Oliveros occorre «un cambiamento radicale della percezione della musica, affinché si insegni che è fatta dalle donne oltre che dagli uomini. La base di tutto è l’ascolto: il modo in cui una comunità ascolta è il modo in cui crea e sviluppa la sua cultura».

Nonostante le avversità, nessuna ha mai mollato. Certo, qualche dubbio ti viene quando sei sola e tutti ti guardano strano. Lo confessa l’anziana signora perbene mentre è seduta in poltrona e ascolta i musicisti che suonano uno dei suoi brani: «È bello», ammette, «sentire che oggi la mia musica è apprezzata, perché c’erano dei giorni in cui credevo di essere pazza». Poi chiude gli occhi, rapita dai suoi suoni rarefatti. È stato allora che il mio cervello di maschio, bianco, eccetera, ha avuto quell’attimo di esitazione ma, sùbito dopo aver accolto l’immagine di questa anziana signora che ha fatto la storia della musica, ha inviato ai condotti lacrimali l’ordine di umidificare i bulbi oculari. Saranno passati i tempi in cui boys don’t cry?

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