Esistono momenti incantati nei quali la storia incontra un individuo geniale e produce un’idea che fa la rivoluzione. Per spiegare cosa succede in questo prisma una sola disciplina non basta. Così, anche quando si raccontano vicende realmente accadute, la letteratura si rivela lo strumento più potente per rovistare le pieghe degli eventi e le trame dei pensieri, fino a restituire almeno un’immagine. Con la maestria del funambolo che cammina sui fili della storia, della filosofia e dell’arte, dopo il successo mondiale de Il tempo degli stregoni, Wolfram Eilenberger racconta l’intreccio di quattro rivoluzioni, perché quattro sono le protagoniste militanti e visionarie, esuli e ribelli, che fra il 1933 e il 1943 impersonano, ciascuna a suo modo, la libertà di pensiero, quando sembrava che fosse perduta per sempre.

Negli orrori e nelle furie del decennio più buio del Novecento, Simone de Beauvoir, Hannah Arendt, Simone Weil e Ayn Rand inventano le radici di una società giusta. Lottano contro l’abisso del proprio tempo e creano le condizioni filosofiche, sociali e umane per la rinascita dell’Occidente dopo il nazismo e la fine della Seconda guerra mondiale. Le loro vite avventurose le muovono dalla Leningrado di Stalin a Hollywood, dalla Berlino di Hitler e dalla Parigi occupata a New York; ma soprattutto le portano a pensare idee che non erano mai state pensate prima, senza le quali il nostro presente sarebbe diverso da come lo conosciamo. Ciascuna delle loro esistenze – da fuggitive, attiviste, combattenti della Resistenza – è una filosofia vissuta e una testimonianza potentissima del potere liberatorio del pensiero. Ancora oggi la loro opera è un esempio della salvezza che la filosofia può donare in tempi oscuri. Arendt, De Beauvoir, Rand e Weil sono quattro grandi icone che insegnano cosa significa vivere per la libertà. E offrono a noi una lezione fondamentale: in ogni epoca, anche la più ostile, essere visionarie è possibile e necessario. (Beppe Cottafavi)

Simone De Beauvoir

«Perché incominciare, quando piuttosto bisognerebbe fermarsi?». Niente male come incipit. L’argomento di questo saggio doveva essere questo: il contrasto tra la finitezza del proprio essere individuale e l’evidente infinitezza del mondo. Bastava una breve riflessione per capire che questo salto abissale minacciava di rendere assurdo ogni progetto, ogni obiettivo personale. E non importa se l’obiettivo fosse la conquista dell’universo o la cura del proprio giardino, alla fine il risultato era lo stesso. Se anche non ci avesse pensato qualcun altro, il tempo avrebbe provveduto a distruggere l’opera, a consegnarla per sempre all’oblìo. Come se non fosse mai esistita. Un destino sicuro, come la morte.

Perché allora fare qualcosa, e non piuttosto incrociare le braccia? O meglio, per riprendere una domanda classica: «Qual è la misura dell’essere umano? Quali scopi può porsi, e in cosa gli è lecito sperare?». Sì in questa forma la domanda reggeva. Eccola, la struttura dell’opera!

Dal suo tavolino d’angolo, al secondo piano del Café Flore, Simone de Beauvoir guardava i passanti. Camminavano di fretta. Gli altri. Ognuno e ognuna chiusi nella propria coscienza. Tutti per strada con le proprie ansie e preoccupazioni, progetti e speranze. Esattamente come lei. Una tra miliardi. Un pensiero che ogni volta le faceva scorrere un brivido lungo la schiena.

De Beauvoir non si era assunta l’impegno alla leggera, come imponeva del resto il tema suggerito da Jean Grenier, l’editore. Per un volume collettivo sulle grandi correnti di pensiero nel mondo contemporaneo voleva da lei un testo sull’esistenzialismo. Ma fino ad allora né Sartre né lei avevano rivendicato il concetto come proprio. Era un neologismo alla moda sulle pagine dei giornali, niente di piu.

La scelta di quel tema era un’ironia della sorte. Perché se c’era un leitmotiv che aveva attraversato la sua vita e quella di Sartre nei dieci anni precedenti, era il rifiuto di accettare un’etichetta pensata per loro da qualcun altro. Questo rifiuto era stato il nocciolo del loro progetto intellettuale, fino a quel momento.

Lo chiamassero pure “esistenzialismo”, se volevano. Lei era decisa ad evitare il concetto. Come autrice, intendeva fare quello che amava fin dai primi appunti presi nei suoi diari di ragazza: dedicarsi con la massima concentrazione possibile alle domande che la tormentavano, e di cui non conosceva ancora la risposta. Curiosamente, erano sempre le stesse. Prima fra tutte quella sul possibile significato della propria esistenza. E poi la domanda sull’importanza degli altri esseri umani per la propria vita.

È vero che de Beauvoir non si era mai sentita tanto a proprio agio in questo genere di riflessioni come in quella primavera del 1943. Al culmine di un’altra guerra mondiale. Nella città occupata. Nonostante le tessere annonarie e le ristrettezze del razionamento, nonostante la cronica penuria di caffè e di tabacco (Sartre era così disperato da perlustrare ogni mattina il pavimento del Cafè Flore in cerca di cicche), nonostante le code giornaliere per i controlli e i posti di blocco, nonostante la censura onnipresente e i soldati tedeschi che anche qui, a Montparnasse, avevano ormai la sfacciataggine di affollarsi nei Cafè. Le bastava poter scrivere in pace per sopportare tutto il resto.

In autunno sarebbe uscito per Gallimard il suo primo romanzo. Un secondo era già pronto nel cassetto. Era a buon punto anche una pièce teatrale, e ora era la volta del suo primo saggio filosofico. Le mille pagine dell’Essere e il nulla di Sartre erano già in casa editrice, pronte per la stampa. Entro la fine del mese il Théâtre de la Cité avrebbe messo in scena Le mosche: il suo primo testo teatrale di argomento politico.

In realtà, questa ricca messe era il risultato di un decennio nel corso del quale lei e Sartre, insieme, avevano creato un nuovo stile filosofico. Come anche – perché le due cose erano inseparabili – un nuovo modo di vivere: sul piano privato e professionale, sul piano letterario come su quello erotico.

Quando lei era ancora studentessa all’École Normale Supérieure – Sartre l’aveva invitata a casa sua per farsi spiegare Leibniz – avevano stretto un patto amoroso molto particolare: si erano promessi l’un l’altra una fedeltà e una lealtà assolute, ma nella forma della coppia aperta. Sarebbero stati totalmente necessari l’uno all’altra, senza escludere però altri rapporti. Una diade dinamica, in cui volevano che si rispecchiasse il vasto mondo. Da allora, questo progetto di vita li aveva portati a nuovi inizi e nuove avventure: da Parigi a Berlino e ad Atene; da Husserl a Heidegger e a Hegel; dai trattati ai romanzi e alle pièce teatrali. Dalla nicotina alla mescalina e alle anfetamine. Dalla “piccola russa” al “piccolo Bost” fino alla “toute petite russe”. Da Nizan a Merleau-Ponty e a Camus. Era quel patto a portarli avanti, con più decisione che mai («Vivere un amore significa trovare, nell’amore, la spinta verso nuovi progetti»).

Simone Weil

Non diversamente da Simone de Beauvoir, anche l’altra Simone – cognome Weil – ha deciso, all’inizio del 1943, di battere nuove vie. Radicalmente nuove. La gravità della situazione non le lascia altra scelta. Questa giovane francese trentaquattrenne è più che mai convinta, in quei giorni di primavera, di trovarsi di fronte a un nemico tale da giustificare anche il sacrificio supremo. Un sacrificio che per uno spirito profondamente religioso come il suo non consiste nel dare la propria vita, ma nel toglierla a qualcun altro.

«Se sono pronta,» annota nei suoi diari di quell’anno, «a uccidere dei tedeschi in caso di strategica necessità, non è perché io abbia sofferto a causa loro. E non è perché odiano Dio e Cristo. Ma perché sono nemici di tutte le nazioni della Terra, compresa la mia patria, e perché sfortunatamente, con mio grandissimo dolore, con il mio massimo rincrescimento, non è possibile impedirgli di fare il male senza ucciderne un certo numero».

Da New York, dove ha accompagnato i suoi genitori in fuga verso l’esilio, Simone si imbarca per Liverpool su un mercantile inglese alla fine di ottobre del 1942, per aggregarsi in Inghilterra alle unità operative della France libre sotto la guida del generale Charles de Gaulle. In queste settimane decisive non c’è niente per lei di più doloroso del pensiero di trovarsi lontano dalla patria, dal suo popolo. Appena arrivata nel quartier generale di Londra, comunica ai funzionari locali il proprio ardente desiderio di ricoprire una missione sul territorio francese, allo scopo, se necessario, di morire da martire per la sua patria. Per esempio come paracadutista (dice di avere studiato a fondo i manuali). O anche come agente di collegamento con i compagni sul posto: ne conosce pure alcuni, per aver militato anni prima a Marsiglia nel gruppo cattolico di Resistenza dei Testimoni cristiani. Ma soprattutto le piacerebbe guidare una missione speciale, da lei stessa ideata, che potrebbe risultare decisiva – Simone ne è convinta – per le sorti della guerra. Il piano consiste nell’istituire un corpo scelto di infermiere francesi, da impiegare esclusivamente nei punti di maggior pericolo in modo da fornire un pronto soccorso alle prime linee. Per quanto riguarda le conoscenze mediche di base, ha seguito a New York i corsi appositi della Croce rossa. Muovendosi sul fronte, questo commando speciale potrebbe salvare molte vite, dichiara Weil, e per convincere i dirigenti della France libre mostra un elenco di pubblicazioni chirurgiche specializzate.

Il vero valore del commando consisterebbe però nella sua forza simbolica, nel suo valore spirituale. Come ogni guerra – prosegue Simone in tono appassionato –, anche questa è innanzitutto una guerra di atteggiamenti spirituali che richiede una grande abilità propagandistica. Ma proprio in questo ambito il nemico si è dimostrato finora diabolicamente superiore ai nostri. Basti pensare alle Ss hitleriane e alla fama che le precede in tutta Europa. Ancora una volta, nella storia di Francia, si trattava di contrapporre allo spirito dell’idolatria una forma autentica di fede. In breve, quello che aveva in mente era una sorta di anti-Ss femminile nello spirito della Pulzella di Orléans. Il piano era già pronto e dettagliato. Simone lo consegna di persona a Maurice Schumann, suo ex compagno di liceo, e questi le promette, stringendole la mano, di presentarlo a de Gaulle. La accompagna quindi personalmente al suo alloggio in caserma.

Come Schumann si aspettava, a de Gaulle bastano tre secondi per liquidare il “commando-infermiere”. «È pazza!». I due convengono che anche ogni altro impiego in territorio francese, nel caso di Weil, è da escludere. Troppo pericoloso. Basta guardarla. Di una magrezza quasi scheletrica, senza occhiali è praticamente cieca. Anche solo fisicamente non reggerebbe alle fatiche della missione. Per non parlare delle fatiche morali.

Se non le hanno dato il permesso di morire al fronte per i suoi ideali, i suoi superiori le affidano in compenso una missione speciale di tutt’altro genere: dovrà progettare piani e scenari per la ricostruzione politica della Francia, nella fase che seguirà alla vittoria su Hitler e alla presa di potere da parte del governo in esilio.

Profondamente delusa e senza possibilità di replica, accetta il compito: si rintana in una camera d’albergo in Hill Street 19, una camera trasformata per lei in studio-ufficio, e si mette al lavoro. Intellettuale.

Ayn Rand

Se la scrittrice e filosofa newyorkese Ayn Rand avesse voluto dare un corpo a quei valori che, secondo le sue convinzioni, erano responsabili della catastrofe della guerra mondiale, nessuno avrebbe potuto svolgere quel ruolo meglio di Simone Weil a Londra. In effetti, in questa primavera del 1943 non c’è nulla che appaia politicamente più rovinoso, a Rand, dell’idea di offrire la propria vita per la patria. Nulla di più fatale, sul piano morale, della volontà di soccorrere il prossimo a ogni costo. Nulla di più sbagliato, sul piano filosofico, di una cieca fede religiosa. Nulla di più aberrante, sul piano metafisico, dello sforzo di fondare i valori della vita pratica in una dimensione trascendente. E niente di più folle, sul piano esistenziale, che sacrificare la propria vita per la salvezza altrui.

Come Rand aveva imparato sulla sua pelle in dieci anni di attività letteraria, erano questioni di grande attualità e proprio negli Stati Uniti. In una lettera del 6 maggio 1943 al suo editor Archibald Ogden, si lascia andare a uno sfogo che non ha precedenti nella sua corrispondenza: «Fiducia... fiducia, non so nemmeno che cosa voglia dire. Se tu la intendi nel senso della fede religiosa, come un cieco abbandono a qualcun altro, allora non ho fiducia in niente e in nessuno. Non l’ho mai avuta né mai l’avrò. La sola cosa a cui mi aggrappo sono la mia intelligenza e i fatti». Ecco le regole base del suo rapporto col mondo. Regole che riguardano, nella lettera a Ogden, i suoi diretti interessi professionali: «Quali garanzie oggettive potrebbe offrirmi la casa editrice Bobbs-Merrill, circa la sua capacità di vendere il mio libro con successo? In chi dovrei riporre la mia fiducia? E su quali basi?».

È un romanzo a cui ha lavorato per sette anni. Ha messo nel libro tutte le sue energie, la sua creatività, e soprattutto la sua filosofia. E ora La fonte meravigliosa viene pubblicizzato dalla casa editrice, con molta parsimonia fra l’altro, come una banale storia d’amore. L’ufficio stampa non sa mettere nemmeno il giusto accento sul fatto che l’autrice è appunto una donna, e non un uomo: «Solo un infermo di mente potrebbe fidarsi di collaboratori di questo livello. È questa la fiducia che ti aspetti da me?».

La domanda, ovviamente, è retorica: a Rand si era attribuito di tutto nella vita, ma non certo l’infermità mentale. Chiunque parlasse con lei, si rendeva conto in pochi minuti di avere a che fare con un’intelligenza eccezionalmente lucida e non disposta ad alcun compromesso. Il problema di fondo, che si trattava di risolvere, non era per lei la sua propria esistenza, ma quella degli altri. E il vero enigma non era tanto che cosa gli altri pensassero o facessero, ma perché lo pensavano e lo facevano: perché non potevano pensare e soprattutto agire con rigore e coerenza? Che cosa impediva alla gente di giudicare le cose a mente fredda, basandosi sui puri fatti? Lei ne era capace.

Hannah Arendt

A pochi passi dall’appartamento di Rand a Manhattan, anche Hannah Arendt crede sia arrivato il tempo di ripensare radicalmente la propria vita. Sia pure con uno spirito meno combattivo. «Solo pochi individui», scrive la filosofa in un articolo del gennaio del 1943, «riescono a mantenere la propria integrità anche quando il loro status sociale, politico, giuridico, è svanito del tutto». Dieci anni esatti dopo la cacciata dalla Germania hitleriana, Arendt – che ha trentasei anni – si guarda allo specchio e non è sicura di trovare ancora in sé l’energia necessaria per conservare quell’integrità. Ma, prima di allora, si è sentita così isolata, così svuotata e insignificante come nelle ultime settimane: «Abbiamo perso la nostra casa e il nostro orizzonte quotidiano. Abbiamo perso il nostro lavoro e con esso la fiducia di poter essere di qualche utilità in questo mondo. Abbiamo perso la nostra lingua, e con la lingua la spontaneità delle nostre reazioni, la semplicità dei nostri gesti e la possibilità di esprimere con immediatezza i nostri sentimenti. Abbiamo lasciato i nostri parenti nei ghetti polacchi, i nostri migliori amici sono stati assassinati nei campi di concentramento, e questo significa che il nostro mondo privato è crollato. Se riusciamo a salvarci, ci sentiamo scoraggiati, e se ci aiutano ci sentiamo umiliati. Lottiamo come dei pazzi per costruirci una vita privata e un destino». In effetti, descrivendo il proprio stato d’animo Hannah Arendt propone un esempio toccante di quelle sofferenze morali che Simone Weil considera necessaria conseguenza dello “sradicamento” esistenziale. La differenza è che Arendt, in questo momento, non vive in un paese militarmente occupato, né è stata vittima di una deportazione di massa. Questo passo del suo saggio Noi rifugiati descrive piuttosto il senso globale di perdita che colpisce con particolare durezza i profughi ebreo-tedeschi in terra americana nei mesi tra il 1942 il 1943. Lei e il marito passano le giornate l’una accanto all’altro a fissare il grigio vuoto del cielo di New York in pieno inverno. Fumando. In silenzio. Come gli ultimi esseri umani su questa Terra.

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