Chissà perché a tutti i fiorentini, da Cecco Angiolieri a Vanni Santoni, prima o poi è venuto in mente di bruciare Firenze. A Massimo Cavezzali – anzi Cavez, in quel meraviglioso modo tronco che hanno avuto i fumettisti di una certa generazione nel darsi un nome – l’idea è venuta nel 1983 e l’ha espressa, anzi l’ha fatta esprimere da un tipo con un naso importante, gli occhiali sa sole e l’espressione severa, su un numero della rivista Orient Express che aveva in copertina Il pescatore di Massimo Rotundo e Riccardo Barreiro.

«A morte i bottegai!», gridava il tipo, visto sempre di profilo come sarebbe diventato il marchio di Cavez. «A morte gli addetti alla cultura!», sbraitava mentre il cameriere del bar al quale era seduto cercava di riportarlo al contegno, imbarazzato dal fatto che la gente di buona società potesse sentirlo.

Cavezzali è stato un ribelle gentile, un rivoluzionario modesto, un rocker morigerato. Un ravennate diventato fiorentino per sbaglio ma che dai fiorentini aveva imparato l’altezzosità e le buone maniere. Era uno che faceva strisce e che sapeva far ridere già dal segno. I suoi personaggi erano rotondi, formosi, così visivamente comici all’impatto da far arrossire Iacovitti. E non la mandavano a dire: oltre a bruciare Firenze, hanno pensato di fare esplodere Marte, dichiarare guerra al romanticismo e annientare l’umanità.

Una papera sexy

Cavez aveva 73 anni ed è morto mercoledì. Che si sapesse, non aveva nemici, ma non aveva nemmeno paura di farsene. Come chi non ha mostri sacri, miti intoccabili, o santi in paradiso. Ha osato trasformare una papera disneiana in una procace esploratrice dello spazio, sempre presa a sedurre alieni a destra e a manca. L’ha chiamata Ava e pubblicata per la prima volta sulla rivista Il grifo, nel 1991; poi è finita su Comix e quindi tra le pagine di Lupo Alberto.

Ha trasformato in fumetto Vasco Rossi, e gli ha fatto annunciare urbi et orbi di “non esistere” – Vasco, da parte sua, non ha mai ritrattato. Poi, forse per contrappasso, ha creato Dio e gli ha dato una striscia: è un tipo grassoccio con un solo occhio sopra la testa, incassato in un triangolo come uno strano monile; è quasi sempre arrabbiato, risentito ed estremamente geloso dell’umanità. È reale, contrariamente a Vasco, tangibile, umano e divertente quanto il vero dio non potrà mai essere. Ha violato Madonna, i Beatles, Simon LeBon, sempre con giustizia equalizzante e precisa.

Grafite

C’è stato un momento, verso la metà degli anni Novanta, in cui Cavez era dappertutto: non nasceva una nuova rivista senza che si fregiasse di una sua vignetta o di una sua striscia. I personaggi gli scivolavano fuori dalle dita magicamente e attraverso i balloon dispensavano una saggezza decisiva, tranciante. Cavez è stato un figlio della satira e ha saputo usarla con dolcezza.

Ha saputo ridicolizzare i suoi contemporanei senza mai veramente contrariare nessuno, perché, come capita ha chi ha il dono della capacità di sintesi, era talmente diretto e cristallino da non lasciare mai il dubbio del secondo fine. Quello che diceva era quello che voleva dire, quello che disegnava era la proiezione esatta del suo pensiero nel momento in cui lo formulava.

«Diventeremo cenere», pensa una figurina scura e tonda dall’ombra lunga in una sua vecchia vignetta. Poi precisa: «Le più carine, cipria; i più puliti, talco; i più utili, farina; i più buoni, parmigiano; i più stupidi, segatura; i più superficiali, zucchero a velo; i più rilassati, sabbia; i più agitati, cocaina; i più colti, povere del tempo». Chissà cosa diventerà lui, adesso che ci ha lasciati indietro. Probabilmente grafite. Oppure polvere pirica, così potrà compiere il suo vecchio proposito.

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