Annalisa Cuzzocrea ha scritto un libro prezioso perché unico. Una descrizione, la più dolce e impietosa, della distanza tra ciò che una passione politica vissuta come “scelta di vita” ha saputo testimoniare e la difficoltà a rinvenire qualcosa di simile nel tempo che ci è dato da attraversare.

E non scappare mai. Miriam Mafai, i segreti e le lotte nella tempesta della Storia (Rizzoli) non è una biografia, o non è soltanto quello. Non è il racconto di una giovinezza tormentata quanto travolgente. E non è neppure lo spaccato di una stagione che ha costretto una generazione di giovanissimi a incrociare il mondo nella maniera più brusca e brutale, travolti da lutti improvvisi e dalla scoperta di una missione laica da assolvere, null’altro e nulla di meno che ricostruire l’Italia dopo il ventennio dell’oscurità e della violenza.

L’euforia e la disperazione

Nella parabola di Miriam Mafai quella miscela inestricabile di vita e dolore, euforia e disperazione, si era affacciata prestissimo con una perdita improvvisa. La decisione di un compagno, un marito giovane quanto lei, di andarsene lasciandole un’arma e due righe angosciose di rimprovero.

Ma come si sopravvive a una prova simile? Se sei una ragazza nata nel ‘26 in una famiglia ebrea, con le sue fatiche come tutte le famiglie, puoi contare almeno sulla solidità dei principi trasmessi al riparo delle mura di casa: «I Mafai non dormiranno mai sotto lo stesso cielo di Adolf Hitler», così il padre Mario sulla macchina che li portava lontano da Roma alla vigilia del 3 maggio 1938, giorno della visita del Führer nella capitale, quella immortalata da Ettore Scola nel film preferito da Miriam con Mastroianni e la Loren a offrire il meglio di sé.

Una causa da abbracciare e imbracciare

E giornate particolari Miriam ne ha conosciute molte. Il punto è che nascendo e crescendo dentro quel contesto puoi decidere che la sopravvivenza passa dall’imbracciare, letteralmente imbracciare, una causa e uno sguardo sul mondo. Il racconto questo lo spiega con una punta di commozione, descrive con affetto un percorso fondato allora – perché negarlo? – su una dedizione esagerata, totalizzante, a un partito vissuto non già, o non ancora, come filosofia della storia, ma comunità alla quale aggrapparsi, della quale sentirsi frutto inseparabile, nella quale riversare quasi ogni aspettativa, compresa la gioia della maternità.

Miriam anche così avrebbe superato quel primo incomprensibile trauma, riscoprendo l’amore senza scinderlo dalla quotidianità, dai luoghi faticosi dell’approdo, la Lucania del primo dopoguerra, l’Abruzzo, lì dove rinsaldava il legame con le donne, ancora poche, e i compagni attrezzati per mandato a “dirigere”.

Le lettere

Un tempo scandito da lettere toccanti e sentimenti descritti con la medesima cura riposta nel preparare lezioni da impartire a militanti in erba, anche se a volte più giovani di lei. Si sposa per la seconda volta, non ci sono doni da condividere, se non una prima edizione dell’antologia di Spoon River, e allora le capita di concentrarsi sull’epitaffio di George Gray come tradotto da Fernanda Pivano, «dare un senso alla vita può condurre a follia, ma una vita senza senso è la tortura».

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La maternità arriva così, lei al nord lontano dal nuovo compagno Scalia, e con un telegramma d’auguri affettuosi che le giunge dal comandante partigiano Nullo, ma siamo tra la Resistenza e il boom, lui ora è un dirigente comunista di peso e stimato. Si chiama Giancarlo Pajetta. La seconda figlia, Sara (decisiva per la nascita di questo libro) sarebbe arrivata nel ‘53 con Miriam ritornata alla missione di funzionaria del Pci, se ne sarebbe discostata tre anni dopo, in quell’anno tumultuoso segnato dai fatti d’Ungheria, senza spezzare il filo della fiducia verso un partito che non poteva ancora liberarsi dal cordone con Mosca.

Il giornalismo

Ne avrebbe scritto, anni avanti, in libri da rileggere e ripensare, e in quell’epistolario sul silenzio dei comunisti, condiviso con Vittorio Foa, Alfredo Reichlin, e trasferito sulla scena da Luca Ronconi. «Il nostro futuro è incerto, ma forse l’incertezza, personale e collettiva è la condizione nella quale dobbiamo abituarci a vivere», si chiudeva così l’ultima risposta di Miriam a Foa, erano i primi anni del nuovo secolo.

La strada del giornalismo era stata tracciata diversi decenni prima e anche in quel caso con la gavetta prevista prima di entrare da cronista de l’Unità nei corridoi, allora solenni, del parlamento repubblicano. È sempre con rispetto, in punta di penna, che i capitoli descrivono quel rapporto via via più confidenziale con Nullo, fatto di qualche biglietto recapitato in tribuna stampa, alcune conversazioni davanti a un caffè o una cena. «Sono nata sotto il segno felice del disordine», forse l’azzardo di un’autobiografia non poteva che esordire così.

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All’Unità il lavoro non somigliava granché al giornalismo di ora, si trattava di raccontare i discorsi di Togliatti, Nenni o Moro. Seguire le elezioni presidenziali, prima quella di Mario Segni, poi di Saragat. Era un partito rigido e con tratti di conservazione. Per dire, restio a concedersi all’innovazione del divorzio (nella commissione dei 75 Togliatti si era opposto all’emendamento di Lelio Basso che all’articolo 29 della Carta sopprimeva il principio di indissolubilità del matrimonio).

«Ma come fai a vivere qui?». «Io non ci vivo qui. Ci dormo» le rispondeva Nullo, e lei di rimando, «Sembra una cella. Tu hai nostalgia del carcere, questa è la verità». Dovevano essere dialoghi formidabili, restituiti solo in parte dalla sequenza di lettere siglate sempre con quella firma.

La nascita di Repubblica apre la lunga ultima stagione, testata assai diversa dal vecchio quotidiano di partito, meno dogmatismi e l’apertura verso i mutamenti del decennio in arrivo. La morte improvvisa di Berlinguer un’intera stagione avrebbe chiuso nel modo che sappiamo, imprevisto e drammatico. Col segretario più amato Pajetta aveva avuto discussioni accese trovandosi in dissenso su scelte che oggi definiremmo di identità, dalla battaglia sulla questione morale brandita con forza nell’intervista del 1981 a Eugenio Scalfari, alla scelta dello scontro finale sulla scala mobile.

Però tocco proprio a lui impiegare l’intera notte, con Miriam a fianco, per scrivere l’orazione funebre pronunciata davanti a una piazza San Giovanni mai più stipata come quel giorno di giugno del 1984.

Il Parlamento

Dieci anni dopo arrivò anche l’esperienza da parlamentare, candidata nell’Abruzzo di quella lontanissima militanza.

«Ma alla Camera si sentiva inutile: la sinistra era in frantumi, troppo presa dalle sue beghe per incidere davvero nel Paese. Il lavoro da parlamentare, che aveva seguito per tanti anni per commentarlo, raccontarlo, criticarlo, le appariva come quello di una scimmia in un circo», a conferma di guasti attuali con radici remote.

La mattina con la notizia della morte di Giancarlo Pajetta mi recai nella loro casa di Monteverde, accolto dalla gentilezza di Miriam. Rimasi qualche minuto in disparte osservando accomodati su due divani Alessandro Natta, Gaetano Gifuni e Francesco Cossiga intenti a conversare.

Miriam mi mostrò una piccola statuetta dentro la quale Nullo da ragazzo aveva nascosto qualche biglietto o appunto, ci ho ripensato leggendo nel libro di Annalisa un ricordo lontano, del primo matrimonio di Miriam, quando aveva confidato a un’amica, «Vuole dormire tenendomi la mano».

Appena eletto segretario dei giovani comunisti, mi presentai a Pajetta nel suo ufficio di Botteghe Oscure. Parlammo per un’ora abbondante, io a fare domande a lui e lui a chiedere a me dei miei studi, di Trieste, della mia famiglia. Poi, alla fine ci alzammo per salutarci e a quel punto mi trattenne ancora un istante per dirmi, «ma tu che sei giovane, sai dirmi perché la sera ci addormentiamo mano nella mano, e la mattina mi sveglio e non c’è?».

Non trovai mezza parola se non un sorriso da offrire, ma dentro di me l’impressione di vite segnate da un’onda inarrestabile di umanità. La stessa che troverete scorrendo le pagine di questo viaggio.

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