Meglio assecondare il proprio desiderio. Lo fece Pier Paolo Pasolini, che amava gli adolescenti analfabeti e andava a cercarseli da sé, e così raccontò la trasformazione dell’Italia attraversando le borgate. Lo ha fatto Walter Siti, che adora i culturisti, e così si è insaccato in quartieri e classi sociali dove non lo avrebbero portato i suoi studi di Normalista; di più: con lo stipendio di professore universitario non avrebbe mai potuto permettersi la compagnia di palestrati cocainomani; allora ha aumentato i suoi introiti facendo l’autore di reality show, e così ha raccontato dall’interno come funziona la televisione di oggi.

È difficile fondare qualcosa di intenso e potente solo sul dovere, sul Super-io. Spesso scrittori e scrittrici incontrano l’impegno civile come un effetto collaterale delle loro passioni. Ho appena visto formarsi questa frase sullo schermo e mi sono detto: «Un attimo: pensa alle tue letture di questi anni. C’è qualcuno che è riuscito a ricavare qualcosa di appassionante dal Super-io, dal suo senso del dovere?».

Soldati di riserva

Il primo nome che mi è venuto in mente è Silvia Dai Prà: Senza salutare nessuno (Laterza, 2019) era un’inchiesta sulle foibe e sull’esodo istriano. Ma, se ci penso meglio, quel libro non era motivato solo dal dovere; partiva da un pungolo personale: recuperare una parte di sé, il ramo rimosso della sua famiglia, il padre comunista a oltranza, le reticenze dei parenti, un bisnonno gettato nei pozzi carsici. Libro bellissimo, come bellissimo era Quelli che però è lo stesso (Laterza, 2011): diario di un anno scolastico a Ostia della giovane professoressa di sinistra Dai Prà, anzi, “pressoré”, come la chiamano i ripetenti che giocano a scopa in classe, i giovani neofascisti, le ragazze incinte a 14 anni, i carabinieri a cui serve assolutamente un diploma per fare carriera. Lì c’era l’urto con l’impossibile, con il contrario delle proprie aspettative, che all’autrice protagonista procura pianti, sconforto, fiducia, soccorso; le cose che contano nella vita. Insomma, anche nei libri più impegnati c’è sempre una motivazione personale, non un senso astratto di ciò che è giusto fare.

Ho fatto un paio di esempi concreti, perché discutere su che cos’è l’impegno in letteratura è tremendo, fa venire fuori i discorsi più generici, i princìpi probi, gli stessi che fanno giustamente irritare Walter Siti. Cerco di limitare i danni racchiudendo in un solo paragrafo – questo – una considerazione tremendamente generica: scrittori e scrittrici secondo me sono una specie di riservisti, soldati di complemento, supplenti. Va bene se accorrono dove c’è bisogno, ma occasionalmente, per tappare le falle del giornalismo, della politica, della giustizia, quando questi ruoli sociali non fanno abbastanza. Altrimenti, meglio che assecondino le loro passioni.

Fecondare la società

«Io credo», scrive Siti, «anzi, non mi stanco di ripeterlo, che il vero bene che la letteratura può fare agli uomini sia di inseminare la testa degli scrittori con ciò che essi non sapevano di sapere, e permettere che i fantasmi così creati fecondino la società a sua insaputa».

Una volta ho scritto un libro ambientato in un orfanotrofio musicale del Settecento, perché in quelle stanze sono stato partorito, e mi ritrovavo a immaginare come doveva essere vivere lì, tre secoli fa, per chi non ha avuto dei genitori amorevoli come i miei. È la storia di una quindicenne violinista, ossessionata dalla mancanza di sua madre.

Ora, sentite cos’è successo. C’è un’associazione che si batte per cambiare la legge sul “riconoscimento delle proprie origini biologiche”, in modo che chi è stato abbandonato alla nascita, poi, da adulto, possa almeno sapere chi è sua madre, con la mediazione di un tribunale e il consenso di lei. L’Italia è l’unico paese in Europa dove questo non è ancora possibile. L’associazione cercava appoggi politici. Un senatore ha risposto: «Vi sosterrò volentieri, perché so quanto soffrite. L’ho capito anche leggendo questo romanzo». Allora l’associazione ha regalato il mio romanzo a tutti i membri della commissione Giustizia della Camera che dovrebbe cambiare la legge, insieme a un libro di memorie di una donna abbandonata alla nascita, e a un saggio sullo stesso argomento.

Così quel mio romanzo, intimistico, quasi lirico, per nulla “impegnato”, è finito nelle mani dei legislatori, insieme ad altri due libri più pertinenti al tema. Un caso di «società fecondata a mia insaputa», come scrive Siti? Non proprio: la presidente dell’associazione, in un’intervista, ha dichiarato: «Sono pronta a mettere la mano sul fuoco che nessuno dei membri della commissione Giustizia ha letto nemmeno uno di quei tre libri», e mi sa che abbia ragione. Ma non importa. Un giorno ho incontrato un uomo sui cinquant’anni, dalla faccia larga e mite. Mi ha raccontato che quel mio stesso romanzo lo ha dato a suo figlio adolescente, barricato in camera da mesi, un hikikomori di Bologna che non rivolgeva più la parola a nessuno. «Gliel’ho lasciato davanti alla porta della camera», mi ha detto quell’uomo. «Mio figlio lo ha preso, l’ha letto e ha ricominciato a parlarmi».

Tre disimpegni serissimi

Contro l’impegno è un libro impegnato. Ed è uno dei pochissimi saggi di critica letteraria che sia riuscito a dire qualcosa di incisivo in questi anni. Le sue tre proposte finali per evitare di cadere nel neo-impegno troppo benintenzionato sono:

1. In nome di un’«assoluta onestà intellettuale ed emotiva», dire cose sconvenienti o controproducenti anche in contesti dove bisognerebbe propugnare soltanto valori positivi. A me sembra la ragione fondante della letteratura, quella che svela l’ipocrisia su cui si regge la società, fin da quando Archiloco scrisse che, sì, gli dispiaceva di avere abbandonato il suo bello scudo in battaglia, ma chi se ne frega dello scudo, lui ne era uscito vivo: nessuna retorica, nessun eroismo fasullo.

2. Accogliere anche «il discorso dell’avversario», praticare l’ambiguità, instillare dubbi. Qui Siti mi ha ricordato Milan Kundera (in L’arte del romanzo e I testamenti traditi), quando dice che se in un romanzo non si capisce da che parte stia l’autore, perché tutte le posizioni dei personaggi sono rappresentate e hanno le loro ragioni, be’, quello rischia proprio di essere un buon romanzo.

3. Invece di programmare consapevolmente l’impegno di un’opera, per Siti bisognerebbe «farsi concavi per accogliere una Parola che non conosciamo ancora e non ci appartiene», abbandonarsi passivamente all’ispirazione, alle verità che si scoprono scrivendo, senza averle in tasca fin dall’inizio.

Condivido anche questo punto; per me è inebriante scoprire la scena di un romanzo scrivendola, conoscere i personaggi passo passo, una frase dopo l’altra, sbalordendomi per ciò che dicono sotto le mie dita che pestano sulla tastiera, immedesimandomi in tutti loro e nel mondo che li circonda, diventando i loro corpi e le nuvole sopra le loro teste e la caffettiera o il fucile che tengono in mano: fantasticando minuziosamente ogni cosa, parola per parola, diventando tutto, mentre scrivo.

Romanzare i danni

Ma il romanzo, oltre che fervore ispirato, è anche progettazione (e lo stesso vale per i testi teatrali, le sceneggiature). E allora, esiste anche un modo di “progettare” storie che abbiano qualche risvolto impegnato, senza essere stucchevoli, come certi libri criticati da Siti? Provo a suggerirne uno. Trovare nel codice civile e penale, ma anche nei tabù e nelle leggi non scritte, ciò che è manchevole, distorto, superato, e mostrarne le conseguenze nefaste o ridicole. La realtà è anche frutto di leggi, divieti, buchi legislativi, decreti, precetti che innescano conseguenze concrete, e mostrano quanto certe regole siano disumane, per eccesso o per inadempienza. Qualche esempio.

Il divieto di Creonte di seppellire i nemici della patria provoca la ribellione di Antigone che non vuole lasciare il cadavere di suo fratello in pasto ai corvi. L’inflessibilità dei tribunali spappola il destino di Jean Valjean nei Miserabili. L’impossibilità di separarsi legalmente e le attenuanti previste per il delitto d’onore sono all’origine della trama di Divorzio all’italiana di Pietro Germi. La legge che impediva ai cinesi di avere più di un figlio mobilita l’ostetrica protagonista di Le rane di Mo Yan. L’illegalità dell’inseminazione artificiale in Argentina spinge due lesbiche a minacciare con un coltello un ragazzo perché si cali i pantaloni e le fecondi, in Il vento in un violino di Claudio Tolcachir (nel frattempo, il parlamento argentino ha approvato la legge).

E la penalizzazione dell’eutanasia spinge Angela, la protagonista di A nome tuo di Mauro Covacich, a contrabbandare in Italia un farmaco messicano per chi vuole essere aiutato a morire. Gli esiti narrativi di questi spunti sono, di volta in volta, tragici, paradossali, spassosi, a seconda delle sensibilità di chi scrive e delle circostanze che racconta. Ecco, io un modo per scrivere un bel romanzo politicamente engagé, senza rinunciare al fervore, all’ambiguità, alla sfrontatezza della letteratura ve l’ho detto. L’avevo già fatto in un saggio di Come ho preso lo scolo, il mio libro più impegnato, che ha fecondato la società con ottocento copie vendute.

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