Le note sono quelle inconfondibili di Les Passantes, la canzone di Georges Brassens tradotta in italiano da Fabrizio De André. Ma il lungo serpente di popolo, messicani dei quartieri poveri, che accompagna una statua di gesso, una santa paesana non consacrata, la canta in spagnolo. La pelle d’oca al cinema è una reazione emotiva di cui si sta perdendo memoria.

Quando il brivido ricompare nel finale di Emilia Pérez, il musical-drama di Jacques Audiard, ti accorgi che ti ha accompagnato per tutto il film. Emilia Pérez è la mia Palma d’oro di Cannes 77. Può sembrare insensato, perché di film ne passeranno ancora tanti. Questo però non può lasciare indifferente nemmeno la più cocciuta delle giurie. Audiard non ha mai fatto un film uguale all’altro. Non si adagia sui cliché nemmeno quando assapora il gusto della Palma d’oro (Dheepan-Una nuova vita, nel 2015). Cambia genere, temi, priorità, e non importa se seguono il vento giusto.

Scommessa azzardata

La scommessa stavolta era davvero azzardata, anche per un francese che si è permesso di rivisitare il western con incantevole humour (I Fratelli Sisters, 2018). Un boss del narcotraffico che realizza il suo sogno di diventare donna, torna in Messico e diventa una filantropa al servizio dei diseredati senza giustizia e senza futuro: sulla carta sembra il canovaccio di un polpettone seriale di terza categoria. Con l’aggravante della musica, delle coreografie e delle canzoni: una pacchianata da pubblico sottosviluppato. Ma il risultato artistico invece è da togliere il fiato.

Emilia Pérez è (molto) lontanamente ispirato a un romanzo di Boris Razon, Ecoute. Ma è integralmente opera del regista, che per partiture e testi delle canzoni si è rivolto alla cantautrice francese Camille e al suo compagno musicista Clément Ducol.

Da crediti, anche sui testi Audiard ha messo lo zampino: sono i più lucidi, sorprendenti e antiretorici che la memoria restituisca. Si può cantare la rabbia di un’avvocata in subordine che vede assolvere un femminicida? O la rabbia corale delle donne “suicide” per sentenza e per convenzione contro la «giustizia che si compra»? O la rivolta delle lavoratrici sottoqualificate e sottopagate: «Per quanto ancora dovremo abbassare la testa e leccargli i piedi»?

La Rita Moro Castro (Zoe Saldana) del film lo fa. E l’équipe medica, con i pazienti, canterà «il pene che diventa vagina» nella clinica thailandese per i passaggi di sesso. Canterà ruberie, corruzione e omicidi di ministri e potenti ancora Rita. Canteranno i figli, le madri e i padri degli ammazzati di cui non puoi nemmeno piangere i resti, costellazione di voci anonime sullo schermo. Un musical può svilire temi potenti, edulcorarli. Quello di Audiard li potenzia.

Inni di lotta

Potrebbero diventare, molte di queste canzoni, inni di lotta tematici autonomi. E l’improbabile diventa vero, emoziona. Audiard sperimenta e sorprende. L’avvocata Rita è oscura ma ha molta più testa dei maschi. Quando la trascinano incappucciata nel covo pauroso di Manilas Dal Monte, boss di un Cartello sanguinario, la richiesta è paradossale: «Voglio essere una donna». Ma è un discorso scandito, esaltato dalle percussioni: effetto inedito.

La ricerca top secret commissionata alla legale la renderà ricca, e il chirurgo ideale viene scovato a Tel Aviv. Il dialogo cantato tra Zoe Saldana e il chirurgo condensa il senso più cruciale del film. Lui: «Posso cambiare i corpi, non le anime. Se è un lupo resterà un lupo e la divorerà». Lei: «Cambiando i corpi puoi cambiare le anime, se cambi le anime cambi la società. Tutti voi che non vi riconoscete in niente di conosciuto, io sono qui per voi!». Così Manilas diventa Emilia Pérez, una persona che non deve obbedire alle leggi spietate con cui è stata allevata.

Sangue da riscattare

Karla Sofia Gascòn, che interpreta Manilas e Emilia, l’uomo e la donna, è un’attrice transgender. Rende credibile e fluida la metamorfosi, costruendo un personaggio umanissimo, empatico e forte. Anni dopo, complice una cena mondana, ricontatta la preziosa Rita per riportare i suoi figli e la loro madre in Messico e iniziare una nuova vita con loro.

Ufficialmente è una cugina del boss, che strategicamente risulta assassinato dai cartelli rivali, come hanno riferito le news. Non è solo il corpo di Manilas che è cambiato. Per l’essere umano libero che è diventato, senza maschere e ruoli imposti, c’è una scia di ferocia e di sangue da riscattare.

Sotto copertura può affidare alla fedele avvocata il compito di indagare tra la manovalanza in galera per ricostruire la mappa dei sepolcri segreti e delle fosse comuni di una mattanza tollerata, l’esercito dei desaparecidos.

È così che prende forma via via Lucecita, organizzazione no-profit di attivisti che suppliscono all’inefficienza omertosa e lautamente ricompensata delle istituzioni. I lussuosi, esclusivi eventi mondani di raccolta fondi si popolano di capoclan rispettati e di nomenklatura politica, e se Saldana ne canta le nefandezze tra i tavoli solo noi, spettatori in sala, ne siamo destinatari.

Mélo flamboyant

È un mélo fuori norma e fuori scala, Emilia Pérez, un mélo flamboyant, la traduzione italiana più esatta è “incandescente”. L’ex moglie di Manilas, Melissa (Selena Gomez, la fanfara dei media ovviamente parla solo di lei, perché è una star e fa glamour) è un’ochetta frustrata e svampita, insofferente della prigione dorata in casa della “cugina”, e finirà per trascinare la storia verso un finale di tragedia. Ha ritrovato l’amante dei suoi vecchi adulteri, vuole accasarsi e portare via i figli. Ma vuole anche tanti quattrini.

La sensibilità femminile non è una prerogativa delle registe donne. Qui si assiste all’incontro della filantropa Emilia con una povera vedova di nome Epifania. Lucecita ha identificato i resti di suo marito. Lei lo credeva vivo ma invece non tornerà più, e piange di gioia. Aveva in borsa un coltello per difendersi dalle botte e dallo sfruttamento di tutta una vita.

È sensibilità femminile inventare un amore tra Epifania ed Emilia, che il maschio se lo porterà sempre dentro, “a metà” tra bene e male, tra un sesso e l’altro, e canta questa incertezza insanabile. È sensibilità femminile immaginare il canto assonnato di un bambino che nella “zia” sente l’odore del padre, «di terra, di montagna, dell’olio del motore, della salsa piccante».

È dal secolo scorso che non mi ripromettevo di procurarmi la colonna sonora di un film, questa l’aspetto con ansia. La spettacolarità è davvero compatibile con l’intimità più impalpabile e più sommessa? È una scoperta, e scardina non pochi pregiudizi.

Sul piano formale ci sono espedienti narrativi che non sono di nuovo conio ma hanno una precisione chirurgica. Lo split screen della furibonda lite al telefono tra una angosciata Emilia, la Melissa che si è presa la prole ma si ritrova senza carte di credito e una Rita incapace, per una volta, di risolvere tutto, è da antologia. Il più dirompente e trasgressivo dei musical, Dancer in the Dark di Lars von Trier, nel lontano 2000 ha conquistato la Palma d’oro. Finiva con una impiccagione. Un quarto di secolo dopo, un bis sarebbe gradito.

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