ANNA

Appena entrata in casa, Anna aveva scansato col piede il mucchio di posta che si era accumulato dietro la porta. Carta inutile, buste con contenuti anonimi, per quanto intestati personalmente a sua madre Margaret Brown Amenta da mittenti che sapevano il suo nome, a volte anche il giorno del suo compleanno, e le mandavano opuscoli, auguri con buoni sconto, cataloghi di oggetti che non avrebbe comprato mai più. Le bollette erano domiciliate tutte sul conto di Bruno, paperless, non c’era davvero niente di necessario che dovesse arrivare per posta.

Aveva anche comunicato all’ufficio locale di Cape Charles di non recapitare più nulla lì, ma forse la nota non era stata recepita e qualche postino in quei mesi si era dovuto prendere la briga di arrivare fin là, con il maltempo magari, la strada dissestata che sul finale diventava un sentiero di fango, a portare quei cumuli di carta inutile, messaggi che il destinatario non poteva più leggere, in un totale dispendio di materiali e risorse, tra i mille sprechi che Anna notava in continuazione e da cui non riusciva a non farsi irritare.

Aveva spinto la sedia a rotelle di Margaret in mezzo al salotto, lasciandola davanti alle grandi finestre che davano sul mare. Si era fermata un attimo a osservare la scena, aveva pensato a delle frasi da dire quando sarebbero arrivati i suoi fratelli, qualcosa che andasse bene per la circostanza: «Speravo che questo momento non sarebbe arrivato. Volevamo solo tenere quello che avevamo. Non ci siamo riusciti. Del resto non c’è niente di glorioso nel cercare di conservare qualcosa che hai già perso. Sforzarsi di trattenere quello che se ne va è inutile, come voler fermare la forza di gravità». Sapeva già che non avrebbe detto niente di tutto ciò.

Era sudata per via del trasbordo della madre dalla macchina fino a lì. Per quanto Margaret fosse piccola e magra, sollevare un corpo adulto, inerme, piazzarlo bene su una carrozzina e spingerlo su per una rampa in parte coperta di sabbia era faticoso. Il peso di quelle operazioni, che per sua figlia e suo nipote aveva fatto centinaia di volte senza sforzo, era aggravato dalla vecchiaia della madre. Dalla malinconia che accompagnava ogni gesto. Imboccare, pulire, cambiare, trasportare. Pensò che il lavoro di cura fatto per un bambino porta in sé un pensiero di vita, la consapevolezza che quando non ne avrà più bisogno sarà perché è cresciuto e autonomo. Lo stesso lavoro fatto per un vecchio implica un pensiero di morte, quando non ne avrà più bisogno sarà perché se n’è andato. La cura, privata della gioia di un avvenire, rimane prodromo di una mancanza definitiva. E le azioni senza futuro sono le più difficili da compiere, devi lottare contro la loro inutilità, contro la loro tristezza, trovandoci un senso nella pura compassione.

Era l’ultimo giorno alla casa, tutti e quattro insieme.

Lo aveva voluto Anna, anche se si era già pentita di avere insistito così tanto. Far stancare la mamma, toglierla dalla routine della clinica per portarla in un posto che non riconosceva più.

BRUNO

Bruno era arrivato per ultimo, parcheggiando con una leggera sgommata la sua Alfa Romeo accanto alla Toyota di Geoff. Era vestito casual come gli avvocati della East Coast che nei fine settimana vanno a giocare a golf. In piena coerenza con il suo ruolo. L’auricolare sempre all’orecchio, parlava al telefono in continuazione, creando in chi gli stava vicino il dubbio su chi fosse l’interlocutore delle frasi che pronunciava.

Si era fermato un attimo a osservare le finestre sul retro del piano terra che era no state tappate alla bell’e meglio con dei pannelli di truciolato. Gli venne un’espressione di disgusto. Una volta dentro aveva accennato un abbraccio alla sorella in salotto, raggiungendola mentre lei tirava la corda di una tenda, passando dietro la sedia a rotelle della madre. «Meglio che non mi faccia vedere, non vorrei che iniziasse a urlare come l’altra volta. Geoff dov’è?» chiese. Margaret aveva alzato la testa dal rosario e aveva chiesto: «Chi c’è?».

Anna aveva risposto a entrambi: «Geoff è in camera sua». Bruno aveva in mano la scatola vuota trovata all’ingresso: «Questa è la mia, vero?». Senza aspettare risposta aveva proseguito da solo salendo le scale: «Ho al massimo tre quarti d’ora, poi devo andare. Prendo qualcosa per le ragazze». Anna non aveva capito chi fossero “le ragazze”: la figlia e la moglie, la figlia e una delle sue amanti?

Bruno era entrato nella camera di Geoff, il fratello gli era andato incontro sorridendo, indicando con una mano la sua scatola appoggiata sul letto, senza aggiungere altro. Eccoci, diceva la scatola, è arrivato il momento, è tutto qua ed è finito. Si erano dati delle pacche sulle spalle, Bruno non reggeva a lungo gli occhi tristi di Geoff, i suoi capelli arruffati, tutto quello che nel suo aspetto parlava chiaramente di una mancanza di controllo, Geoff dal canto suo non sopportava niente del fratello, gli sembrava che ogni sua espressione, dai vestiti che indossava al tono di voce, non facesse che ribadire “io sono meglio di te”.

GEOFF

Ho appena baciato la mamma e abbracciato mia sorella. Sono invecchiate, entrambe. Avrei fatto meglio a tenere il punto e non venire, oggi.

Il dolore più grande è che questo posto non lo riconosco più.

Senza girarci troppo intorno posso dire di aver trascorso in questa casa sul mare i giorni più felici della mia vita. Forse era facile allora, anche se eravamo figli di una vedova, sorvegliati a vista da un nonno anaffettivo.

Qui tutto mi rassicurava, era sempre estate, era come se il buio non esistesse. Tutta la luce che mi circondava, gli alberi, le cicale, il vento, il ritmo ipnotico della risacca da cui provavo a farmi incantare nelle notti in cui non riuscivo a prendere sonno, facevano pensare che niente di brutto sarebbe mai potuto accadere fin ché ero lì, con il culo sul copriletto con la stella marina.

Oggi tutto sembra la risposta sbagliata a una domanda mal posta troppo tempo fa. E lo so da solo quanto possa sembrare retorico e ingenuo ciò che penso. Ma è quello che mi sento rimproverare da sempre, di essere un sognatore malinconico troppo attaccato al passato.

Forse è arrivato il momento di rivendicarlo.

Ho iniziato, senza rendermene conto, a provare angoscia a venire qui già da un bel po’ di anni. Non ho mai dato la colpa alla casa, ero consapevole di quello che mi stavo portando dietro. Ma adesso che la osservo forse per l’ultima volta, mi accorgo di quanta paura mi faccia stare qui.

È successo qualcosa di brutto e di irreversibile a un certo punto.

Le onde che si infrangono adesso producono un rumore sinistro, una specie di bombardamento ritmico che risuona nelle fondamenta, troppo forte per non risultare anche minaccioso. Il vento fischia in continuazione tra le intercapedini delle finestre che non sono più in grado di contrastarlo. Guardo ogni nuvola come l’avvicinarsi di un tornado, ogni pioggia come il prodromo di un uragano.

Fa sempre troppo freddo o troppo caldo. Ormai è impossibile resistere qui dentro senza accendere il condizionatore. L’umidità è insopportabile e rende sgradevoli anche le giornate di sole. Adesso per esempio fa freddissimo. Chissà perché Anna non ha acceso il riscaldamento. Sarà per le sue paranoie sul risparmio energetico, scommetto. Nel frattempo qua tocca tenersi il giubbotto. E la povera mamma lì ferma nel salone si prenderà un raffreddore. Che ideona portarla. Come ha potuto pensare che avremmo passato un bel momento. Ormai qui si respirano solo disagio e inquietudine. E non dipende soltanto dalla casa in rovina e dagli eventi atmosferici. Anche la natura è cambiata. Prima tutto scintillava.

Oggi ogni cosa che guardo è opaca. Al posto dell’argento e del verde brillante, fuori ci sono solo grigi e marroni. Quando ero piccolo mi sembrava di vedere qui intorno solo animali stupendi. Uccelli eleganti che volavano in formazione, garzette, aironi cinerini e altri piccoli trampolieri. Centinaia di granchi blu con le loro cinque paia di zampe, che nel periodo della muta facevano quell’abbraccio con le che le che durava un giorno o anche più prima di convincere la femmina ad accoppiarsi. (Abbraccio che noi fratelli imitavamo per scherzo, tenendoci tutti e tre per le braccia con le dita strette a pinza e il primo che diceva ahia o mollava aveva perso). Per non parlare dei cavalli liberi nel parco di Assateague. Ora sembrano aver preso il sopravvento le bestie più brutte, da cui ci si deve difendere: zanzare, mosche, cimici, blatte, scolopendre, scutigere, bisce d’acqua, ratti. L’ultima volta che sono venuto ho notato una quantità impressionante di limuli morti. Una distesa di carapaci puntuti e puzzolenti di questi animali fossili rimasti identici dal Paleozoico, che vedono nel buio, hanno il sangue blu e sembrano resistere a tutto, mentre per il resto degli esseri viventi ci sono poche speranze per il futuro.

È strano come queste sensazioni di apprensione io abbia cominciato ad averle da adulto. In genere appartengono all’infanzia, quando si vedono mostri dappertutto e ogni angolo buio sembra nascondere un aggressore. Ma tutto è cambiato in me, e questo posto non fa che farmi rimpiangere chi ero. Per questo lo odio, non mi sento più a casa. Non avrei mai pensato che un giorno mi sarebbe potuto succedere di entrare qui e desiderare di fuggire al più presto, di avere nostalgia della casa sul mare stando dentro la casa sul male.

Questo brano è tratto dal romanzo Erosione, edizioni e/o. In libreria da oggi.

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