Il 17 settembre dell’anno 1859, a San Francisco, un personaggio piuttosto curioso fece il suo ingresso nella redazione del Bulletin, il principale quotidiano della città. Portava una divisa militare logora, lercia, che un tempo doveva essere stata blu. Un berrettino, uno spadone. Una barbaccia ispida e incolta e tutta l’aria di essere completamente svitato. Si diresse alla scrivania del direttore, lo salutò e lo pregò (con modi assolutamente cortesi) di pubblicare il testo che stringeva in mano.

Era una lettera. O meglio: un annuncio alla nazione. Era un proclama con cui quel tizio squinternato, al secolo Abraham Joshua Norton, scioglieva il parlamento, licenziava il presidente e si autoproclamava Imperatore degli Stati Uniti d’America, col nome ufficiale di Norton I. Tanto era assurda la faccenda, che il direttore del giornale, il signor George Kenyon Fitch, stabilì che sì, avrebbe davvero pubblicato l’annuncio: in fondo i lettori avevano anche bisogno di ridere…

Ciò che George Fitch ancora ignorava era che quello era l’inizio di una storia che sarebbe andata molto più in là di una semplice pagina di giornale. Sarebbe diventata fenomeno di costume, avrebbe incuriosito scrittori del calibro di Mark Twain e Robert Louis Stevenson. Avrebbe sconvolto pregiudizi sociali e convinzioni intorno al labile confine tra genialità e follia, fino a raggiungere le vette della cultura psichedelica della San Francisco beat cent’anni più tardi.

Piano, però. Per il momento, quella dell’autoproclamato “Imperatore d’America” era soltanto una nota di colore, una delle tante vicende di picchiatelli che capitava d’incontrare a San Francisco, città delle rapide fortune e dei disastri repentini. Fino a pochissimi anni prima, il signor Abraham Joshua Norton era stato uno dei più ricchi imprenditori del posto. Ebreo inglese, prima emigrato in Sudafrica e quindi nel nuovo continente, aveva avviato una fiorentissima attività commerciale che, almeno all’inizio, gli aveva fruttato più che bene.

Poi, all’improvviso, un brutto inciampo, un investimento sbagliato, e Norton aveva perso tutto. Niente più party raffinati, niente più accesso nei salotti splendenti della San Francisco bene. Un’altra città nella città, quella invisibile dei poveri e delle baracche, l’aveva inghiottito, e trasformato in senzatetto. Quando era riemerso, due anni più tardi, Norton era completamente impazzito: era rinato come Sua Maestà.

L’imperatore della strada

Prendersi gioco di qualcuno è sempre un ottimo passatempo. Ma il fatto è che un gioco, a volte, può prendere la mano, tanto da farsi più difficile distinguerlo dalla verità. Perché Norton I, con la sua aria da svitato e con le piume di galletto sul cappello, si presentava alle prime teatrali, e (sempre per ridere, si capisce) gli impresari gli riservavano un posto in prima fila, gratis. «Ma certo, Vostra Maestà, benvenuto: è un onore!»

Entrava serissimo nei ristoranti migliori chiedendo di mangiare, ed ecco: la cena gli veniva servita. Spesso veniva affisso un cartello sarcastico: «Qui ha cenato Norton I, Imperatore degli Stati Uniti». Norton chiedeva di ispezionare i cantieri e, sghignazzando, tra mille inchini strafottenti, intanto i cantieri gli aprivano le porte sul serio. E quei suoi buoni imperiali su cui campeggiava l’augusto ritratto, pian piano finivano per essere accettati come moneta corrente.

Quando, nel 1876, l’Imperatore del Brasile (questo sì, autentico) Pedro II si recò in visita a San Francisco, fu organizzato un incontro a tu per tu, a porte chiuse, con il suo omologo senzatetto Norton. Per ridere, sì, ma a ben vedere: chi guidava il gioco? Una città che derideva un pazzo, o un imperatore della strada che finiva per vivere da imperatore davvero?

Pari diritti

Strana, stranissima la piega che stavano prendendo le cose. Anche perché, poi, questo svitato imperatore leggeva i giornali ogni mattina e sembrava piuttosto presente a se stesso. A leggere bene tra le righe, i proclami assumevano, lentamente, dei toni un po’ anomali. Il 27 maggio 1871 Norton ordinava, per esempio, che i neri avessero accesso ai mezzi pubblici. Ed era convinto di avere il potere di arrestare ogni razzista trasgressore. Il 7 marzo 1874 Norton scriveva che «poiché la nazione americana ha riconosciuto la cittadinanza alle persone di colore, ai loro figli verrà consentito di essere ammessi alle scuole pubbliche nonché di godere di tutti i diritti di ogni cittadino».

In fondo era un ultimo, un senzatetto, un immigrato, un ebreo: non poteva non avere a cuore i suoi sudditi, senza discriminazioni. E poi predicava l’ecumenismo, raccomandava la separazione tra stato e Chiesa, la libertà di ogni confessione religiosa e ripudiava il bigottismo. Ed era inventore e visionario: fu proprio lui, nel 1872, ad avere l’idea di un grande ponte sospeso che potesse collegare la città a Oakland; lo stesso Bay Bridge che oggi chiunque può vedere a San Francisco, ma che sarebbe stato costruito soltanto sessant’anni dopo. Ma erano altri i ponti ideali, i collegamenti tra persone che il folle e buffo imperatore aveva a cuore.

Nel 1873 chiedeva all’esercito di cessare le ostilità nei confronti dei nativi americani e di chiedere scusa per le “frodi” commesse ai danni delle tribù, mentre nel 1875 ingiungeva di accogliere gli immigrati cinesi e di metterli al riparo dagli speculatori. Senza contare che, naturalmente, nel 1878, pose la firma sotto una petizione per il voto alle donne. Davvero: serviva essere pazzi per essere tanto rivoluzionari. Così come avvenne quando, secondo la leggenda, Norton fermò tutto da solo un pogrom contro Chinatown: si pose al centro della strada, ordinò alla folla inferocita di disperdersi… e quelli ubbidirono a Sua Maestà.

Reinventarsi

Curioso davvero: il confine era labile. Perché il signor Norton, senza dubbio, era pazzo, e ingiusto sarebbe sia negarlo che ingentilire la follia. Twain, giovanissimo cronista nella San Francisco dell’epoca, e che proprio a Norton si ispirò per tratteggiare il personaggio del Re nel suo Huckleberry Finn, scrisse di lui: «Era una pena vederlo chiedere la carità. Penso che, con tutta la sua sporcizia, e col suo aspetto ripugnante, ci fosse in lui anche un che di patetico».

Eppure, allo stesso tempo, Norton era un uomo che aveva saputo reinventarsi, con una fantasia tanto potente da contagiare la fantasia degli altri; con un impero della mente che solo nella tollerante San Francisco poteva mettere radici. Scrisse Stevenson: «In quale altra città un povero pazzo indifeso che si credeva imperatore delle due Americhe sarebbe stato tanto appoggiato e incoraggiato? In quale altro luogo persino la gente della strada avrebbe mai rispettato l’illusione di un povero sventurato?»

Morì nel gennaio del 1880, crollando per strada per un aneurisma. Gli trovarono in tasca un telegramma falsissimo della Regina Vittoria e pochi penny. Il giorno del suo funerale, il corteo fu seguito da diecimila persone. Ogni bandiera della città fu messa a mezz’asta e ogni saracinesca abbassata. Oggi riposa sotto una lapide che recita solo: «Norton I. Imperatore degli Stati Uniti e Protettore del Messico». Per ricordare a chiunque che, in questa vita così folle, è possibile essere chi si decide di essere. E fabbricare il nostro impero di fantasia e libertà.


Questo è un estratto del libro di Errico Buonanno, “L’imperatore d’America. Storia favolosa del vagabondo che si fece Re”, edito da Utet, 2022, pp. 208, euro 17

  

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