Il malinteso per cui gli universi ispirati al Signore degli anelli sarebbero un patrimonio delle destre tradizionaliste è eclatante. Fatevi un giro al Lucca Comics, santo cielo. Da ormai quasi un secolo l’immaginario fantasy offre semmai il più fertile e accessibile dei terreni alla sperimentazione delle identità, dei legami e delle interattive performance del sé che con la tradizione e con le norme vogliono rompere, fare casino. Mi pare ci sia un tragico difetto di fantasia in chi, al cospetto dell’opportunità d’immaginarsi elfo millenario o rarissima nana barbuta, hobbit che fugge dalla provincia o regina di un borgo incantato, sceglie invece di rivisitare le favole note – dio, patria, famiglia, eroe, che palle. Tolkien ci ha fornito ben altri strumenti.

Dungeons & Drag Queens

A Seattle, in un ristorante tailandese che incongruamente ha una saletta col palcoscenico (il cibo lascia a desiderare, ma l’acustica è buona), si tiene periodicamente, tra serate musicali e monologhi della stand-up comedy, un evento culto dal titolo Dungeons & Drag Queens. È cominciato poco più di un anno fa ed è già una sensazione, tanto che fa il tutto esaurito anche nei teatri più grandi in cui ora comincia a spostarsi.

Il primo a manifestarsi è solitamente Carson Grubb, ipnotico polistrumentista coi capelli rossi che si presenta come bardo viaggiatore del tempo. Connette alle casse il violino elettrico, il sintetizzatore o un aggeggio tipo scettro magico che chiama “chitarra spaziale”, fa la faccia seria, e attacca a suonare immergendo la sala in un lisergico entusiasmo da film per ragazzi degli anni Ottanta – chi ricorda il sensazionale David Bowie di Labyrinth o ha consumato la videocassetta de La storia infinita sa di cosa parlo.

Su quelle note, con un mantello viola da mago allacciato sulla felpa della Nasa, compare poi Paul Curry, comico nerd gay venticinquenne che, nella vita, scrive codici per Google (anche lui ha i capelli rossi). Paul fa il dungeon master, cioè il narratore che prepara e guida l’avventura improvvisata da un gruppo che deve poi reagire, un po’ raccontando un po’ recitando, alle sue invenzioni.

Alle prese con draghi sfiatati positivi al Covid, castelli governati da duchi mentecatti somiglianti a Elon Musk, o muscolose divinità che finiscono per fare il filo alle locandiere influencer, questo gruppo giocante è composto, a ogni serata, da un diverso terzetto di favolose Drag queen della zona che, per l’occasione, sfoggiano tiare, corpetti, faretre, spadini e altri accessori fiabeschi sul classico costume iper-femminile del drag. Per vedere se i loro incantesimi o tiri di scherma hanno successo, per stabilire la forza con cui riescono, nella storia, a combattere, o l’astuzia con cui possono escogitare un inganno, non si affidano alle loro proprie qualità personali, ma tirano un dado che regola quelle dei loro personaggi nella finzione. Un dado a venti facce, simbolo universale del gioco di ruolo tolkeniano, noto agli appassionati come “D20” e proiettato, in versione elettronica, su un grande schermo, così che tutto il pubblico possa vederne gli esiti. Oggi seguo questa fantasmagoria ironica e geniale su Tik Tok e Instagram, ma ho avuto la fortuna di assistere a una delle prime serate dal vivo perché Carson, il bardo, è un mio ex-studente (ora amico), ed ero volato in quei giorni a Seattle per il suo matrimonio. Alla fine, mentre tutti uscivano divertiti, con la chitarra spaziale in spalla Carson mi aveva chiesto «perché inventarsi storie fantasy lì per lì trasforma tanto facilmente un pubblico in una comunità?» Si aspettava forse una spiegazione da professore di letteratura, che non avevo. E dunque si è risposto da solo: «Sarà che è una roba queer».

Giocare a dadi col sé

Ci credo pure io che il gioco di ruolo sia una roba queer, intrinsecamente, anche senza Drag queen – e non è un caso che le Drag queen coinvolte da Paul e Carson siano invariabilmente state, nelle loro infanzie americane da loser, ragazzini appassionati di Dungeons & Dragons. Niente nega le rigidità dei paradigmi di genere più agilmente della pratica di costruirsi un personaggio tirando un dado, atto che sbugiarda le supposte ineluttabilità dei destini biologici in cui ci raccontano che siamo nati. Una delle facce del D20, solido platonico noto anche come icosaedro, mi dirà quanto sono forte, bello, carismatico. Mi inventerò una vita, un aspetto, una personalità, a partire dai capricci del caso.

Tra i puristi del gioco di ruolo c’è anche chi tira il dado per determinare l’altezza, il peso, la specie umana o inumana del proprio doppio finzionale, o che adopera addirittura un tetraedro (D4) o un cubo (D6, il dado classico) per deciderne il genere di là dal binario M/F di un tiro di moneta – androginie, virilità femminee, angeliche mancanze di sesso, eunuchi tipo Varys di Game of Thrones, e così via. Tirare i dadi per stabilire chi saremo nella storia da giocarsi ci rivela l’arbitrarietà con cui un procedimento in fondo assai simile ha stabilito chi siamo, o chi crediamo di essere, nella vita fuori dal gioco. Si dice che i giochi e le saghe fantasy attirino chi non è felice nei propri panni, chi vorrebbe essere diverso da sé, ma la verità è che appassionano chi intuisce che quei panni, che quel sé, sono accidentali e caduchi: che ci sarà occasione di tirare di nuovo i dadi, di cambiare personaggio, di uscire dall’adolescenza e di provarsi addosso molti sé – tra cui, magari, anche un regale abito da Drag queen.

Bromance fantasy

Come non è di destra, l’eredità di Tolkien non è nemmeno, si sa, una cosa da maschi. Ce lo mostra la nuova, pur tragicamente bruttissima, serie tv kolossal sugli anelli del potere in onda su Amazon Prime, nonché il fatto che le più grandi saghe fantasy in lingua italiana le abbia scritte una donna, Licia Troisi.

D’altro canto è vero che diverse generazioni di maschi anglo-americanizzati hanno trovato nella mitologia tolkeniana e nei giochi che ha ispirato una valvola di sfogo per sogni, comportamenti, e modi di stare insieme altrimenti repressi dalle aspettative della condotta di genere del tardo capitalismo. Se l’atletismo, la competizione, la solitudine, la goliardia e la gerarchia non ti entusiasmano, ma nemmeno desideri esplorare le opzioni verso cui tradizionalmente si incoraggiano le bambine e le ragazze, costruire mondi e abitarli con gli amici al tavolo da gioco è una via d’uscita. È un modo per cambiare le regole della maschilità senza abolirla. All’improvviso quel che in palestra o nei corridoi di scuola ti rende perdente, non conforme, diventa all’opposto una risorsa: leggere più di quanto non si giochi a calcio, capirne di numeri e statistiche come un secchione, essere riflessivo più che impulsivo, cooperare invece che primeggiare.

Perché tutti i giocatori si immergano nell’illusione di star attraversando le segrete di un maniero, di aver incontrato un demone infernale e di potergli lanciar contro palle di fuoco, è necessario esercitare qualità verbali, comunicative, d’immaginazione condivisa e sospensione dell’incredulità. In un simile golfo mistico tra realtà e finzione, che si dilata per ore nelle camerette e nelle sale hobby in cui ci si raduna a fingere di essere stregoni o paladini, ragazzi altrimenti imbranati, timidi, stringono amicizie di una speciale qualità. Giacché, se l’obiettivo è entrare insieme profondamente in una storia il cui destino ultimo si legge su una faccia imparziale del dado, tutto quel che in quella storia avviene (battaglie, amori, vittorie e ritirate rovinose) lo si condivide come un’esperienza epica, grande come non se ne possono forse trovare in nessun parchetto o campo sportivo.

Su questa esperienza di squadra antitetica a quella agonistica si basa il nostalgico incanto di Stranger things, fortunatissima serie che ha rinverdito l’interesse globale per il classico Dungeons & Dragons con dadi, manuali e fotocopie da adorabili sfigati. Nelle loro emarginate diversità, i protagonisti adolescenti da romanzo di King si incontrano sul tavolo da gioco, cui uno di loro (il figlio, nella storia, di una formidabile Winona Ryder) resta attaccato anche quando gli altri si sentono troppo grandi per continuare a giocare a dadi con la fantasia. Già sappiamo che è il più magico del gruppo, assieme alla taciturna El che porta i capelli cortissimi e cerca in vestiti sgargianti e parrucche bionde un’identità femminile non dettata dallo sguardo dei maschi.

Da una scena iconica, generatrice di infiniti meme, in rima col dilungato primo piano finale di Timothée Chalamet in Call me by your name, nell’ultima stagione apprendiamo che è anche il più queer, che non ha capito i limiti della sua bromance con l’amico del cuore. Forse le due cose, queerness e magia, sono collegate, come aveva intuito Carson il bardo.

© Riproduzione riservata