Che senso ha, oggi, nel 2021, leggere Dostoevskij? Perché una persona di venti, o di trenta, o di quaranta, o di settant’anni dovrebbe mettersi, oggi, a leggere, o a rileggere, Dostoevskij? Ecco. Domanda che non mi mette minimamente in imbarazzo. La mia risposta è: non lo so. Io, qualsiasi domanda mi si faccia, rispondo quasi sempre, come prima cosa, che non lo so. Poi, delle volte, vado avanti. In questo caso, se mi si chiedesse che senso ha, oggi, nel 2021, leggere, o rileggere, Dostoevskij, direi che non lo so. Poi andrei avanti. E direi che c’è un personaggio secondario di Delitto e castigo, che si chiama Svidrigajlov, che a un certo punto dice che non c’è niente di più difficile della franchezza e niente di più facile dell’adulazione. E che se nella franchezza c’è anche solo un centesimo di nota che suona falso, si avverte subito una stonatura, e ne viene fuori una scenata. Mentre l’adulazione, anche se è tutto falso, sino all’ultima nota, riesce comunque sempre gradita, e la si ascolta non senza piacere; sarà pure un piacere grossolano, ma è pur sempre un piacere, dice Svidrigajlov. E io, quando ho riletto quella pagina, ho pensato a uno scrittore italiano col quale siamo stati anche un po’ amici, fino a quando non ho scritto una recensione di un suo romanzo, il quale scrittore, quando eravamo un po’ amici, mi ha raccontato che, nel palazzo dove abitava lui, c’era un portiere analfabeta, che non sapeva né leggere né scrivere, e che, tutte le volte che usciva un romanzo, di questo scrittore, il portiere lo fermava e gli diceva «Dottore, il suo ultimo romanzo: bellissimo». E lui, questo scrittore, che è una persona molto intelligente, e sensibile, e di una moralità specchiata, mi verrebbe da dire, e che sapeva benissimo che il suo portiere era analfabeta, quando sentiva così, mi ha raccontato, era contento. Era un così bel modo, di cominciare la giornata. Quindi: il senso di leggere Dostoevskij io non lo so, so che Dostoevskij, anche se non lo leggiamo, ci ha detto, nelle cose che ha scritto, come siam fatti prima ancora che venissimo al mondo, e poi so, bene o male, cosa è successo a me, quando ho cominciato a leggerlo, Dostoevskij.

Chissà se è vero

Ho sentito dire che, diventando vecchi, si regredisce a uno stadio infantile. Chissà se è vero. Una cosa che mi sembra succeda a me, in questi ultimi anni (ne ho già cinquantasei e, quando avrò finito di scrivere questo libro, ne avrò già cinquantasette), è che mi chiedo come mai faccio le cose che faccio. Non le faccio così, senza pensarci, le faccio chiedendomi “Ma perché la faccio, questa cosa?”. Come quei bambini che, se gli dici che è ora di andare a letto, ti chiedono «Perché, è ora di andare a letto?». E se gli dici che la verdura fa bene ti chiedono «Perché, la verdura fa bene?». E se gli dici che non possono guardare tanta televisione, ti chiedono «Perché, non posso guardare tanta televisione?». Ecco io, questi ultimi anni, uguale, quasi. Un paio di anni fa, quando di anni ne avevo già cinquantacinque, mi sono chiesto come mai, io, nella mia vita, tra tutte le cose che avevo letto, avevo letto soprattutto dei libri russi. “Perché?” mi sono chiesto. E mi son ricordato del primo libro russo che ho letto, Delitto e castigo, di Dostoevskij.

Il posto

Delitto e castigo l’ho letto che avevo forse quindici anni, son passati ormai quarantun anni e, di quel momento in cui ho incontrato Delitto e castigo, io mi ricordo tutto; mi ricordo la stanza dov’ero, la mia stanzetta all’ultimo piano della nostra casa di campagna, mi ricordo com’ero voltato, mi ricordo l’ora del giorno, mi ricordo lo stupore di quello che stava succedendo, mi ricordo che mi chiedevo nella mia testa “E io?”. Quel libro, come i libri memorabili che ho incontrato nella mia vita, ha fatto diventare un momento qualsiasi tra gli innumerevoli momenti che ho passato nei cinquantasei e passa anni che son stato al mondo un momento indimenticabile, un momento in cui ero consapevole del fatto che stavo al mondo, un momento che mi sentivo il sangue che mi pulsava dentro le vene.

Perché?

Uno scrittore russo, Vasilij Rozanov, descrive Dostoevskij come un arciere nel deserto con una faretra piena di frecce che, se ti colpiscono, esce il sangue. Ecco io, la prima reazione che ho avuto, quando ho capito di cosa parlava Dostoevskij in Delitto e castigo, quando Raskol’nikov, il protagonista, si chiede «Ma io, sono come un insetto o sono come Napoleone?», ecco quella domanda, io quindicenne, me la sono rivolta anch’io: «Ma io» mi son chiesto «sono come un insetto o sono come Napoleone?». E ho avuto, me lo ricordo perfettamente, la sensazione che quella cosa che avevo in mano, quel libro pubblicato centododici anni prima a tremila chilometri di distanza, mi avesse aperto una ferita che non avrebbe smesso tanto presto di sanguinare. Avevo ragione. Sanguina ancora. Perché?

Questo libro

Questo libro, attraverso il racconto dell’incredibile vita di Fëdor Michajlovic Dostoevskij, ingegnere senza vocazione, traduttore umiliato dai propri editori, genio precoce della letteratura russa, nuovo Gogol’, meglio di Gogol’, aspirante rivoluzionario miseramente scoperto e condannato a morte, graziato e mandato per dieci anni in Siberia a scontare la sua colpa, riammesso poi nella capitale, quella Pietroburgo il cui mito, con le sue opere, contribuirà a costruire, «la più astratta e premeditata città del globo terracqueo», secondo una celebre definizione del suo uomo del sottosuolo, giocatore incapace e disperato, scrittore spiantato vittima di editori cattivi, marito innamoratissimo di una stenografa di venticinque anni più giovane di lui, padre incredulo che scrive a un amico: «Abbiate dei figli! Non c’è al mondo felicità più grande», pazzo benedetto che mette per iscritto le domande che tutti noi ci facciamo e che non osiamo confessare a nessuno, uomo dall’aspetto insignificante, goffo, calvo, un po’ gobbo, vecchio fin da quando è giovane, uomo malato, confuso, contraddittorio, disperato, ridicolo così simile a noi, che riesce a morire nel momento del suo più grande successo, attraverso il racconto di questa vita romanzesca, questo libro che crede di essere un romanzo prova semplicemente a rispondere a quella domanda: perché? Perché sanguina ancora?

A cosa serve?

Uno, mi rendo conto, potrebbe chiedermi: Ma a te piace sanguinare? In un certo senso, sì. Nel senso che viviamo, mi sembra, in un tempo in cui valgono solo le vittorie e i vincenti, un tempo in cui il participio presente perdente non indica una condizione temporanea, è un’offesa, in un tempo in cui, se ti chiedono «Come stai?» (e te lo chiedono, continuamente), devi rispondere «Benissimo!» col punto esclamativo, in un tempo in cui devi nascondere le tue ferite e i tuoi dispiaceri, come se tu non fossi fatto di quelle, e di quelli. C’è un paese, in Sardegna, che si chiama Seneghe, che per quattro giorni all’anno si trasforma nel paese della poesia, perché c’è un festival di poesia e sui muri c’è pieno di cartelli con le scritte dei poeti, come quella di Wisława Szymborska che dice «Preferisco il ridicolo di scrivere delle poesie al ridicolo di non scriverne», e a me l’ultima volta che ci sono andato, nel 2016, è venuta subito in mente una cosa che aveva scritto Zavattini nel 1967 a Franco Maria Ricci: «Sono pessimista ma me ne dimentico sempre». E mi è sembrato che non si potesse essere pessimisti, in quei giorni lì, a Seneghe, e mi è venuto in mente Angelo Maria Ripellino, che quand’era in sanatorio, in Repubblica Ceca, che si curava, chiamava sé stesso e gli altri ricoverati «i nonostante». «L’avverbio – aveva scritto Ripellino – si fa sostantivo, a indicare noi tutti che, contrassegnati da un numero, sbilenchi, gualciti, piegati da raffiche, opponevamo la nostra caparbietà all’insolenza del male». Che meraviglia, Ripellino. E ho pensato che per quelli che leggono i libri, che guardan le mostre, che ascoltano le sinfonie, i libri, i quadri, le musiche che hanno incontrato nella loro vita li hanno aiutati in questa cosa così difficile e così strana, stare al mondo, a essere dei nonostante, a rendersi conto delle loro ferite, dei loro difetti, e ad accettarli, perché, come dice un cantante canadese, è attraverso le crepe che si vede la luce. E questa condizione di nonostante, che io credo riguardi noi tutti, non interviene solo nei momenti decisivi, delle nostre vite, quando siamo in Repubblica Ceca in un sanatorio, credo intervenga anche nella vita di tutti i giorni, nella mia, perlomeno, succede, quando provo un sentimento che non ha un nome preciso, o se ce l’ha io non lo so. Quel sentimento lì io l’ho riconosciuto, la prima volta, una volta che andavo a prendere una ragazza in stazione, era la prima volta che veniva a trovarmi, a Parma, abitavo a Parma, allora, e intanto che andavo in stazione, mi piaceva tanto, quella ragazza lì, intanto che andavo in stazione mi dicevo «Ma dove credi di andare, ma cosa credi di combinare, ma torna indietro, ma vai a casa». Era un misto di ritrosia e di vergogna, ritrosogna, si potrebbe chiamare, che brutto nome, ritrosogna, ecco io la ritrosogna, son passati vent’anni, e quella ragazza lì è diventata la mamma di mia figlia ma io la ritrosogna ce l’ho ancora, tutte le volte per esempio che devo partir per la Russia: «Ma cosa credi di combinare» mi dico, «ma dove credi di andare, ma torna indietro» mi viene da dirmi nella mia testa, «ma stai a casa», invece poi ci vado, e mi sembra una cosa incredibile, che, nonostante la ritrosogna, riesco poi ad andarci lo stesso. E anche quando ho cominciato a scrivere questo libro sulla vita di Dostoevskij, nella mia testa mi dicevo «Ma cosa credi di fare, ma cosa vuoi scrivere, ma cosa credi di combinare, ma pianta lì», invece adesso non pianto lì, vado avanti.


Paolo Nori è autore del libro Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fedor M. Dostoevskij, edito da Mondadori e in uscita il 13 aprile

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