Intendiamoci. Spero che il numero più alto possibile di persone guardi Sanremo e spero che la maggior parte di loro possa trarne giovamento, specialmente in un momento come questo in cui di cose di cui rallegrarsi non ce ne sono poi tantissime. D’altro canto, io non lo guarderò. Senza per questo pensare che mi sto perdendo qualcosa.

Mi oppongo, infatti, all’idea che Sanremo vada guardato, l’idea che questo fantasmagorico baraccone floreale nasconda un qualche tipo di profonda connessione con il leggendario “paese reale” che ne rende imprescindibile la visione soprattutto per chi, come noi giornalisti, si guadagna da vivere provando a capire e raccontare questo bizzarro paese. 

È un’idea che circola tra quegli appassionati che si sentono in dovere di giustificare il loro amore per il festival. Sostengono che Sanremo sia qualcosa di alto, nobile, che non va snobbato, che anche gli “intellettuali” dovrebbero seguire. Non succede solo per Sanremo, beninteso. È un’intera fenomenologia che potremmo chiamare stracultismo, paeserealismo o, se passate la citazione un po’ sopra le righe, il vivalamerdismo.

Per fare la rivoluzione

C’è un noto aneddoto sul leader comunista Palmiro Togliatti, certamente apocrifo, che viene in genere richiamato a supporto di queste tesi. Appena svegliatosi nel suo letto di ospedale dopo l’attentato del ‘48, Togliatti avrebbe chiesto al fido Pietro Secchia cosa aveva fatto la Juventus il giorno prima.

Di fronte al silenzio sorpreso del compagno, Togliatti lo avrebbe rimbrottato: «E tu pretendi di fare la rivoluzione senza sapere i risultati della Juventus?». Come dire: come pretendi di guidare il popolo se non conosci le sue passioni? (Verrebbe da rispondere che, non avendo nemmeno Togliatti fatto la rivoluzione, sapere di calcio è come minimo un requisito non sufficiente).

Ad animare i sostenitori di queste tesi c’è un complesso di inferiorità che affligge molti di coloro che si occupano di temi inspiegabilmente ritenuti “minori” (musica leggera, sport, cinema di intrattenimento) – un complesso che non è altro che il rovescio della medaglia del riottoso e insopportabile classismo che affligge i ceti intellettuali del nostro paese.

Anche il calcio è cultura

Così abbiamo tutto un mondo di giornalisti sportivi, scrittori di gossip e costume, critici cinematografici e musicali che si spendono e spandono per assicurarci che anche il calcio è cultura, che c’è un valore segreto nei film di Alvaro Vitali e che, ovviamente, una puntata di Sanremo vale un profondo trattato di sociologia. 

«Che ne volete sapere dell’Italia se non guardate Sanremo?», sembrano domandarci come dei novelli Togliatti. Tutto e niente, verrebbe da rispondere. Di certo non serve guardare Sanremo o conoscere i risultati dell’ultima giornata di campionato per conoscere il paese. Questo non significa che Sanremo non possa anche essere intellettualmente stimolante.

Si possono fare riflessioni di ampia portata e interesse partendo da elementi della cultura pop – ed è quello che fanno da anni brillanti sociologi e antropologi. Ma non invertiamo l’ordine dei fattori. Si può fare una storia d’Italia attraverso Sanremo, ma non serve guardare Sanremo per scrivere la storia d’Italia. 

Insomma godetevi il festival per quello che è: un gustoso intrattenimento che non ha bisogno di pseudo-giustificazioni intellettuali. Oppure non fatelo. L’unica cosa che perderete sarà la comprensione delle battute dei vostri amici e colleghi il giorno dopo. Da parte mia, prometto che non sostituirò la visione del festival con un intrattenimento da borioso intellettuale, tipo la lettura di un grande romanzo russo. Probabilmente passerò quelle sere a giocare ai videogiochi.

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