La vita di Giulia Cecchettin valeva più di quella delle altre cento donne uccise quest’anno da uomini a cui erano legate. Anche più di quella di Giulia Tramontano, uccisa da Alessandro Impagnatiello mentre era incinta, uccisa con l’aggravante della crudeltà.

A fare questa classifica non sono io, che la osservo con orrore, è la nostra coscienza collettiva, che su questo caso si è fermata un secondo di più, si sta fermando, mentre sugli altri no, gli altri casi sono scivolati via come inevitabilità, nessuna grande firma maschile sulle prime pagine dei giornali, nessuna riflessione franca e a-cuore-aperto sulla mascolinità.

I giovani non ci salveranno

Qui senza ipocrisia riporto questo interesse e mi chiedo: perché questa Giulia? Giulia Cecchettin era molto giovane, aveva 22 anni. Ma Giulia Tramontano ne aveva solo qualcuno in più, 30, ed era incinta di sette mesi. Quest’ultimo caso ha toccato la nostra sensibilità in modo diverso.

La prima ragione è che, da vecchi, riponiamo una speranza idiota nella gioventù in quanto tale. Pur senza aver dato ai giovani cura, attenzione, strumenti, nutrimento; avendo abdicato la sfera affettiva ai valori tramandati dalla famiglia, e si sa che la famiglia è proprio il veleno che dovrebbe essere compensato dalla scuola, perché la famiglia nucleare è isolata, non si confronta, ripropone schemi vecchi.

Quasi per definizione la famiglia è in qualche misura tossica. Ma la scuola tace, latita, per ordini dall’alto (il ministero) e a volte per indolenza, a volte per estenuazione e iper-lavoro di chi insegna. Così quello spazio se lo prendono i social, che sono pieni di valori conservatori e premiano la ripetizione.

L’algoritmo cinese spinge i contenuti romanticizzati sulla gelosia, sulla possessività, sulle “fidanzate casalinghe”. Tiktok riscopre i valori dei boomer – o di una strana cultura ispirata agli anni Quaranta-Cinquanta immaginata e non vissuta – e li ripropone in purezza (quindi distorti). Ma non inventa niente che non si veda già nelle nostre case, fra i nostri amici, nelle nostre classi scolastiche e nelle nostre famiglie: qualche forma di abuso di genere.

Quindi l’omicidio di Giulia Cecchettin, 22 anni, compiuto da Filippo Turetta, 22 anni, sconvolge la popolazione perché scopre una realtà scomoda: i giovani non ci salveranno, perché il progresso non nasce dall’incuria. La popolazione normalmente di questioni di genere se ne frega. Lo shock è segno sempre di qualcosa di inatteso, ma chi volesse studiare, anche poco, la disparità di genere, sarebbe meno sorpreso e forse più capace di progettualità. Superata la paralisi dell’emotività, potrebbe finalmente fare qualcosa per cambiare sé stesso e gli altri.

Lo sfondo

Però il grande elemento di rottura rispetto alla storia che solitamente viene raccontata sui femminicidi, è lo sfondo socio-culturale della vicenda. Anche questa non è una novità, le donne vengono uccise da sempre in qualsiasi classe sociale; mi torna in mente la villetta di Chiara Poggi, uccisa a 26 anni, laureata in economia, lui studente della Bocconi, quando ancora non usavamo la parola femminicidio.

Ma il 2006 era un’altra epoca, e ultimamente abbiamo inquadrato meglio il fenomeno della violenza di genere, e lo abbiamo visto accadere maggiormente in circostanze in cui c’è meno controllo sociale, dove l’isolamento della donna da parte del suo carnefice è già avvenuto e quindi lei si è già distaccata da qualsiasi sfondo sociale potesse avere, per cristallizzarsi nel ruolo di sfogatoio delle frustrazioni del suo compagno o ex compagno. Queste donne non sono ancora morte ma neanche del tutto vive, tragedie che attendono di accadere.

Giulia, invece, abbiamo la sensazione che fosse ancora fra noi, che potevamo ancora salvarla. La sorella Elena, maggiore di due anni, sta dimostrando di essere non solo precisamente informata (di femminismo, di cultura della violenza) ma anche eloquente e fortemente politica, perché riesce a incanalare il dolore in qualcosa di più grande di sé, e prova a dare con la sua esperienza un proseguimento alla storia.

Come Antigone, ha detto Chiara Valerio, «fa del corpo di sua sorella quello che ne può fare perché non può riportarlo in vita: fare sì che non muoiano altre persone».

Stem

Elena Cecchettin ha gli strumenti per fare questo perché proviene da un ambiente in cui si studia. E si studia poi in una facoltà come ingegneria, quella frequentata dalla sorella Giulia, che è particolarmente prestigiosa nel pensiero comune anche in quanto poco accessibile alle donne. Semplificando, il pensiero è: non solo studiava, faceva ingegneria, che è una facoltà da dure.

Sono una minoranza le donne ad accedere alle materie Stem (scienza, tecnologie, ingegneria, matematica), le associamo a una particolare emancipazione. E poi c’è il fattore geografico: il nord, un nord mitteleuropeo, vicino ai paesi di lingua tedesca, pare infatti che Elena abbia vissuto per un periodo a Vienna. La misura dei suoi discorsi è assoluta. Trattiene le lacrime, su cui sa che le telecamere indugerebbero, e mantiene il discorso on message.

Anche il padre, Gino Cecchettin, comunica in modo chiaro e controllato, non fornisce elementi di facile patetismo, e quel «io come padre mi interrogo, mi faccio delle domande, ma il tempo è passato ed è troppo tardi ora» ci segna come non avrebbe potuto fare un più caratteristico pathos.

Un grandissimo sfigato

Poi c’è lui, che nessuno davvero credeva fosse un bravo ragazzo. L’aveva sgamato Elena, che lo vedeva perseguitare la sorella con messaggi e sensi di colpa, lo inquadrava bene Giulia Zecchin, amica di Giulia, compagna del liceo classico a Padova, che spiega lucidamente la dinamica dell’abuso: era ossessivo, la manipolava col senso di colpa, e lei era buona, “troppo buona”.

Sono ragazze che spezzano il cuore perché ce l’avevano quasi fatta, a emanciparsi, a tirarsi fuori dal pericolo dei bravi ragazzi che ti asfissiano, ti soffocano, perché sono sempre lì, ovunque ti giri, al centro commerciale ti accompagnano in macchina, a studiare in biblioteca vengono con te, sono viscosi, questi bravi ragazzi di cui ai miei tempi si diceva «che ha che non va? È perfetto».

Lo si dice soprattutto in ambienti medioborghesi, che sono bravi ragazzi, perché a questi ragazzi si richiede di studiare, di «non dare problemi coi professori», e poco altro. Maschi che sono un coacervo di fragilità, e qualsiasi donna sa che la fragilità è più pericolosa della sicurezza, anche della spavalderia. Quando non ce lo traducono, a parole nostre diciamo che sono gli sfigati e sono i peggiori.

E Filippo Turetta era un grandissimo sfigato: senza amici, senza le risorse per stare al passo – mentre Giulia pur con la mamma morta appena un anno fa, continuava a dare esami e si laureava e faceva progetti.

Turetta era uno sfigato di cui però Giulia sentiva di doversi prendere cura, perché nessuno ancora oggi insegna a noi donne che abbiamo diritto a seguire il nostro desiderio, e se non desideri più un uomo lo lasci, quello che succede a lui dopo, tutti gli psicodrammi di lui non sono responsabilità nostra.

Il patriarcato ha vinto

Se un’autodifesa esiste, è questa: pensarsi come soggetti desideranti, dare legittimità a quello che vogliamo realmente e farsi guidare da ciò. Non paura, ma autonomia e desiderio. Certo, anche le vittime hanno punti di fragilità psicologica – quasi sempre però sono punti indotti dalla cultura, che derivano dall’essere socializzate come donne.

Già ci mandate in analisi giovanissime, ma la psicoterapia individuale che de-socializza e de-politicizza non è la risposta a tutto. Forse è ora che in analisi ci vadano anche i giovani maschi che «se mi lascia mi ammazzo», a cui viene risposto sai quante altre ne puoi trovare.

Tutti questi fattori – l’estrazione sociale, il nord mitteleuropeo, la civiltà, la dignità, la gioventù, e anche l’aspetto – avvicinano l’evento a noi, ci entrano in casa. Rendono meno facile dire «a me non sarebbe successo», ci fanno capire che la cultura patriarcale è ancora più radicata di quello che alcuni pensavano. E che ancora una volta, per un pelo, ha vinto.

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