Le ragazze hanno seni cospicui e posteriori ingombranti, il top del sex appeal nei nostri primi anni Cinquanta. Le star americane girano brutti peplum e fanno baldoria nella golden age della Hollywood sul Tevere. E il budget di Saverio Costanzo per Finalmente l’alba – 28 milioni, faraonico per i nostri lidi – giustifica la scelta di attendere, per l’uscita del film in sala, il più proficuo periodo natalizio. Uscirà il 14 dicembre con 01 Distribution.

Nel titolo c’è chi legge un velo di romanticismo, qui a Venezia dove il film è in concorso. Alba è il nome della compagna di vita del regista, che qui si ritaglia il piccolo ma mitico ruolo di Alida Valli. Di Alba Rohrwacher si parlerà molto, nei prossimi giorni, per Hors-saison di Stéphane Brizé, si favoleggia di una performance in stato di grazia. Puoi opporre resistenza al film di Costanzo, o puoi arrenderti e lasciarti risucchiare con tutte le scarpe, come è accaduto a me. Nessuno potrà negare però il fascino dell’operazione: è un atto di coraggio spericolato in una cinematografia come la nostra, deragliata da tempo sui binari dei prodotti senza qualità, nel senso di Musil. Ed è un poderoso ritorno al grande schermo, per un autore che negli ultimi otto anni si è dedicato alle serie di lusso.

Non solo Wilma Montesi

Finalmente l’alba è meno una ricostruzione d’epoca che un vagabondaggio dell’immaginario nell’epica di quegli anni, con il bagaglio di cinema che ci ha consegnato. Dentro c’è tutto, a cominciare da La dolce vita che a distanza suggerisce le peregrinazioni di una Candide intrusa pro tempore nei baccanali dei ricchi, e proseguendo con le audizioni tragicomiche di Bellissima, con gli occhioni sgranati di Mimosa (l’esordiente Rebecca Antonaci, scoperta dal regista con gli spot della Barilla) che sembrano quelli di Wanda ne Lo sceicco bianco, con un’ avventura fugace di sesso parente stretta di Le notti di Cabiria (vedi Giulietta Masina con Amedeo Nazzari-Alberto Lazzari), con l’Antonioni de La signora senza camelie, e l’elenco può continuare.

Costanzo però non sta vomitando citazioni cinefile a vanvera, sono pennellate disseminate senza prosopopea e senza grevità da saccente. È un film di fantasmi, in primis quello del “fattaccio” Wilma Montesi, che portò alla ribalta politica i festini vip dell’epoca, tra nobiltà nera e nomenklatura democristiana. La mattina dell’11 aprile 1953 Wilma Montesi, anni 21, aspirante attrice, venne rinvenuta cadavere sulla spiaggia di Torvaianica. Morta per annegamento, secondo il medico legale, ma reduce da una nottata a base di droga e sesso che coinvolgeva il musicista Piero Piccioni (in arte Piero Morgan), fidanzato di Alida Valli e figlio di Attilio Piccioni, vicepresidente del Consiglio e alto notabile di casa Dd.

«Credi in Dio?», fa chiedere il regista al Piero Piccioni del film. «Credo in mio padre», risponde. Da quello scandalo di potere, un caso di omicidio altamente mediatico che rimbalzò su scontro politico, ebbe pesanti ripercussioni elettorali e favorì l’ascesa di Amintore Fanfani nella leadership democristiana, è partito Saverio Costanzo.

Dice il regista che la vittima, allora, scomparve ben presto dalle cronache per fare posto alla passerella dei suoi possibili carnefici. Ma ha fatto bene a lasciarla sullo sfondo della narrazione, perché è proprio così che il film non diventa ostaggio della cronaca. Nel film la tragedia rimbalza dai notiziari tv in bianco e nero. È una delle sorti possibili in agguato per le anonime comparse di Cinecittà che sognano glorie di celluloide. È uno degli esiti possibili, una morte “accidentale” alla Montesi, per la notte bianca di Mimosa, non bella, non sexy, scartata dai frettolosi provini di Cinecittà ma reclutata per puro caso come trastullo pro tempore del jet set del cinema Usa in trasferta romana.

L’età d’oro di Cinecittà

Se non fai resistenza, è bello lasciarsi catturare fin dalla prima sequenza. La Roma in bianco e nero e i nazisti spietati sono quelli di Roberto Rossellini, ma la retorica del commento musicale tradisce la rivisitazione hollywoodiana del neorealismo e il suo tradimento: è cinema infatti, che fa lacrimare una platea popolare nutrita di star system d’importazione, che come Giulio Andreotti a suo tempo per Umberto D. deplora «tutte ‘ste brutture sbattute in faccia».

Un talent scout di bassa lega, riedizione dichiarata del Walter Chiari di Bellissima, recluta al volo una formosa spettatrice per le audizioni da comparsa a Cinecittà. Si gira un kolossal sui faraoni. Per una serie di fortunate coincidenze, la sorella bruttina della medesima, già condannata dalla famiglia ad accasarsi con un poliziotto sovrappeso (come la vera Montesi), si ingrazia la star americana del kolossal (la Lily James di Downton Abbey e Cenerentola di Kenneth Branagh, che nel film-nel-film recita sapientemente da cani).

Le sequenze negli studios, con i fondali dipinti, le scenografie kitsch e la vestizione bislacca in camerino delle comparse nostrane, sono notevoli. Ma sarà lungo il viaggio di Mimosa in un mondo fatto della materia di cui sono fatti i sogni, e altrettanto deludente. Durerà fino all’alba. A condividerlo con lei, oltre a Lily James – che è una Anita Ekberg insicura e nevrotica in versione fulva, ma è tutto artificio, anche la chioma – ci saranno il sex symbol hollywoodiano di turno (il Joe Keery consacrato dalla serie Stranger Things) e Willem Dafoe, che impersona con immenso umorismo un faccendiere americano di stanza nella mondanità romana.

Dafoe si è finalmente deciso a fare uso del suo italiano, lingua che parla benissimo, visto che qui da noi ci vive, ma che di norma rifiuta di utilizzare fuori dalla sfera privata. Per inciso, vorrei far notare che negli ultimi quarant’anni questo incredibile attore è stato presente in tutti i film di cui vale la pena di tenere memoria, da Heaven’s Gate in avanti, e ha lavorato con tutti o quasi gli autori degni di questo nome, da Oliver Stone a Martin Scorsese a David Lynch, Lars Von Trier, Wes Anderson, Guillermo Del Toro, Sam Raimi, Abel Ferrara, Julian Schnabel, Paul Schrader, Zhang Yimou…l’elenco mette soggezione. Qui al Lido troneggia anche in Poor Things di Yorgos Lanthimos. Se c’è uno che merita un documentario ad personam sulla carriera è lui.

Perdita d’innocenza

Indirettamente, sì, Finalmente l’alba ha anche il respiro tarantiniano di una perdita d’innocenza collettiva in una cornice che demolisce la mitologia del grande schermo. «Stai in guardia dalla nostra vita», raccomanda Alba Rohrwacher-Alida Valli all’intrusa, che a tutti viene contrabbandata come una promettente poetessa svedese. È un trastullo usa-e-getta, da umiliare alla prima occasione. E l’occasione sarà una declamazione impossibile, un vergognoso silenzio che si risolverà in un ridicolo trionfo, nel regno della finzione manipolata.

Si applaude tutto quello che non si capisce, purché qualcuno dia il via. Dice il regista che il suo è un film sul riscatto dei semplici, degli ingenui, di chi è ancora capace di guardare il mondo con stupore.

La villa di Capocotta con i suoi fasti, con la coca e la carne fresca da consumare per i maiali di turno, registra le testimonianze pubblicate dai giornali del tempo. E nessun sentimento, nessuna bellezza sopravvive alla notte. Del finale non parlo, ma azzardo una lettura. Mimosa, la nostra Candide, si chiude alle spalle la fabbrica dei sogni col suo armamentario di fango, fragilità e inganni, ma non potrà mai tornare al mondo da cui proviene, anche se adesso ha trovato il coraggio di essere sé stessa. Costanzo dedica Finalmente l’alba a suo padre. È chiaro che fin da bambino Maurizio Costanzo gli ha fatto vedere i film giusti.

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