Il 4 marzo, alla vigilia del primo lockdown, veniva cancellata Juve-Milan e la programmazione di Rai Uno sostituiva la partita con Pretty Woman. Me lo ricordo perché purtroppo vivo con uno juventino, ma anche perché quello è stato il momento esatto in cui ho realizzato che io me la sarei cavata e che questa pandemia mi avrebbe portato più vantaggi che altro. «Ahah, stronze lumachine!» ridevo soddisfatta guardando Julia Roberts trafficare con le escargots per la milionesima volta, gustandomi una serata molto migliore di quella che avevo messo in conto.

A quasi un anno di distanza mi sento di sottoscrivere la mia prima impressione. Fuori fa freddo e viene buio alle quattro e io non sono afflitta da nessun dilemma, non devo vedere gli amici, non devo inventare scuse per non uscire: semplicemente non posso. In questi mesi ho smesso di inaugurare ogni giornata soffocando tra le ascelle di sconosciuti in metropolitana, ho visto 168 film, e soprattutto nessuno, nessuno, mi ha chiesto cosa faccio a Capodanno, domanda tra le più detestabili della storia insieme a «posso dire?» e «non lo finisci quello?».

Faremo tutti la stessa cosa a Capodanno. Niente. Stapperemo una bottiglia un po’ più buona del solito ma senza troppo clamore, mangeremo una fetta di panettone in ciabatte e andremo a letto presto. Onestamente non riesco ad addolorarmene.

Il primo gennaio 2020, alle 4 del mattino, mi stavo trascinando da una festa a un’altra in un’area industriale di Londra – che ad oggi non ho la più pallida idea di dove fosse collocata, forse in un universo parallelo – ripromettendomi di fare dei figli il prima possibile per non dovermi più sottoporre a tutto questo (tirarsi fuori dagli impegni mondani e avere qualcuno da incolpare per le proprie loffe, due ottime ragioni per procreare).

È il dramma di quando hai 20-e-qualcosa anni e te ne senti 150: il mondo ti chiede di divertirti a tutti i costi, il reflusso gastrico ti intima di andare a casa prima di vomitare tra due macchine parcheggiate. Quest’anno cuore e cervello, anima e corpo, mondo e reflusso, saranno tutti allineati. Insomma, il Coronavirus ha fatto anche cose buone.

Un’occasione persa

Per Natale, in compenso, abbiamo perso un’occasione. Ci siamo sempre lamentati di pranzi e cene che duravano quanto il processo di Norimberga, del cugino che bara a Scala 40, dell’immancabile paio di calzini con le dita separate sotto l’albero che la zia trova sempre “simpaticissimi”, del divano letto su cui ci ritroviamo costretti a dormire, il cui materasso per qualche motivo sembra essere stato riempito di pile esauste e su cui ci rotoliamo senza tregua (esausti anche noi) per tutte le feste. Troppo a pezzi per dormire, troppo stanchi per stare svegli, come Ewan McGregor in Trainspotting, ma con lo zabaione al posto dell’eroina. Il cuscino di solito è un pezzo di cartone dentro a una federa.

Per una volta potevamo risparmiarci tutto questo. Potevamo saltare il Natale a piè pari. Restare soli nelle nostre piccole case, dotate di cucine troppo modeste per azzardare una cena, figuriamoci un cenone. La sera della Vigilia potevamo ordinare una barca di sushi a domicilio e mangiarla in mutande davanti a Una poltrona per due, addentando l’uramaki al salmone nel preciso istante in cui Dan Aykroyd tira fuori il pesce da sotto la barba lurida, per poi andare a letto a sognare i 365 giorni che ci separano dalle prossime feste, sdraiati a quattro di bastoni su un materasso della consistenza giusta.

Invece abbiamo protestato, raggirato decreti, organizzato spedizioni segrete per raggiungere le nostre famiglie, di cui saremmo stati saturi dopo poche ore di bagno condiviso. Persino io, che ho a lungo accarezzato l’idea di mentire sul risultato del mio tampone negativo per rimanere ben salda sul divano su cui ho passato gli ultimi nove mesi – il tempo di una gestazione, non a caso, metafora delle scelte migliori che avrei dovuto partorire – alla fine ho ceduto e sono tornata a casa da mammà.

Ho poi infilato un’altra serie di pessime decisioni, fra le altre quella di produrre a mano gli anolini per il pranzo del 25, ultimo slancio artigianale di questo anno che ci ha illuso di poter sconfiggere le nevrosi a colpi di mattarello. Ma a ogni giro di manovella della macchina per tirare la pasta vedevo i lampi  del mio Natale alternativo, che purtroppo e per fortuna forse non tornerà mai più: il sushi, Una poltrona per due, la birra bevuta a collo dalla bottiglia. A ogni giro di manovella visualizzavo la cena ordinata da Peck (dove potrei fare compere solo con la carta di credito di Richard Gere), e i regali che avrei fatto a me stessa. Un Natale in "splendido isolamento”, come la Gran Bretagna, come Warren Zevon.

Persino il virus cambia

Eppure non è facile abbandonare le tradizioni. Se lo fosse non ci sarebbero così tante persone disposte a sfilare per le città della Toscana vestite da paggi medievali, nessuno accetterebbe questa umiliazione. Se lo fosse non avrei creduto a Babbo Natale fino a un’età piuttosto avanzata, che mi imbarazzerebbe rivelare. Persino il virus cambia, nientemeno che in Inghilterra (un paese non certo famoso per la sua flessibilità), ma noi non cambiamo mai.

Alla fine a tirare la pasta mi si è infiammata la cervicale (il dramma di quando hai 20-e-qualcosa anni e te ne senti 150) e ho passato il 25 dicembre a muovermi come C3PO, e a Parma ha grandinato con una violenza tale che abbiamo dovuto chiudere gli scuri e passare la giornata al buio come il conte Dracula, ma tutto sommato per la mia famiglia non è stato un Natale peggiore di altri (mi vengono in mente quello del 2002, con mio padre in lutto per Joe Strummer, quello del 2016, rovinato dalla morte di Carrie Fisher, e quello del 1992, in cui i miei genitori celebrarono con gli amici il cosiddetto “Natale dei poveri” regalando a tutti i miei pannolini usati e ricevendo in cambio un bidet trovato per strada, una latta di fagioli e un arbre magique al limone).

Come al solito non mi posso lamentare di niente, ho sfangato anche questa. Mentre torno a Milano pregusto il mio Capodanno dei sogni, l’ultimo regalo che ci fa questo 2020. E speriamo che sia davvero l’ultimo.

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