Nell’isolamento pandemico abbiamo imparato nuovi alfabeti, ci siamo appesi a nuovi canali comunicativi, tentando di tenere a galla il nostro bisogno di socialità.

I più astuti sono stati probabilmente i non accoppiati, che non potendo fare affidamento sulla scialuppa della relazione hanno dovuto navigare i lockdown con l’austerità della completa autogestione: tra sedute di yoga in zoom e rimpatriate con gente altrimenti dimenticata, la comunicazione digitale è diventata una flebo fondamentale.

Non a caso, proprio ora che in Inghilterra — più che in ogni altro paese europeo — ogni restrizione è stata eliminata, incluso l’isolamento dei positivi, ha debuttato a Londra con grande successo un dramma sull’incomunicabilità che forse, senza il passaggio del Covid, sarebbe risultato anacronistico, opaco. Parlo di The human Voice, basato su La Voix humaine di Jean Cocteau e diretto in questa nuova versione, appena ritoccata, da Van Hove.

Sembrerebbe forzato portare nel 2022 un dramma monologico che scorre sul filo di un telefono fisso. Quel cappio che ci arricciavamo alle dita ci ricorda adesso di un tempo in cui la comunicazione implicava una sorta di impegno: il telefono fisso ci fissava, appunto, in un punto esatto, in un luogo e in una conversazione.

Ogni chiamata era inchiodata come un quadro: era questione di contemplazione, concentrazione, aveva un inizio chiaro e una fine ancora più chiara, con le perturbazioni della linea che andava e veniva (Cocteau riprende i problemi di linea della Parigi di quegli anni) che coincidono spesso con quelle interiori. Invece il salotto spoglio di questo riadattamento – da cui ci separa una vetrata che viene spesso aperta e chiusa, come nel tentativo di ristabilire cosa è interiore e cosa esteriore, dove finisce il nostro io e dove comincia quello dell’ex, che è una delle operazioni fondamentali del lutto amoroso — è sorprendentemente attuale e toccante.

The human voice segue un’amante abbandonata che arranca nei suoi sentimenti, parlando con l’amato che noi non sentiamo. La star è Ruth Wilson, la bravissima e intensa attrice di The affair: con precisione sobria e incantatoria seguiamo i moti del suo animo in quella zona grigia che segue la rottura di un rapporto: si passa dalla simulazione del benessere (fingere di essere usciti di casa, di essere vestiti eleganti, mentre noi la vediamo vestita di casa con una felpa di Titti), poi la performance cede, e tra le crepe vediamo affiorare il panico e la tristezza, poi la recriminazione, fino al gesto religioso di abbracciare e baciare le scarpe di lui come una reliquia.

Sembra tutto diverso dagli anni Trenta di Cocteau: ci illudiamo che l’immediatezza dei social e la libertà di voci non più ancorate a un filo abbia reso la comunicazione una questione più agile, meno goffa, non più legata a uno spazio-tempo.

Invece proprio la distanza temporale da quegli anni trenta immersi nel perturbante della voce umana incorporea, passando per la sospensione asfittica dei lockdown, ci dona lo spazio giusto per ripensare all’oggetto del telefono – che Wilson spesso pone sulla fronte o in braccio come fosse, alternativamente, un oggetto sacro o un bambino – come a un totem destinato a cambiare continuamente valenza, restituendoci da un’epoca all’altra l’ambiguità pericolante del comunicare e non comprendere, dell’esserci e non esserci, del lasciarci e del restare, ambiguità che nella relazione amorosa raggiunge il suo culmine struggente.

Il balcone che si apre e si chiude, durante la telefonata che procede a singhiozzi, somiglia alle valvole del cuore: la conversazione è un battito che accelera e rallenta, tra la passione e il panico, la tenerezza e la furia. Fino a un finale che non rivelo, accompagnato bizzarramente da una canzone di Miley Cirus.

Il Time Out ha accusato l’opera di sessismo: siamo diventati allergici alle donne remissive che senza amore si sentono sfiorire. Io invece penso che chi ha scritto quel pezzo non si sia mai innamorato: non c’entrano nulla i nostri ruoli sociali nella piccola tragedia di darsi completamente.

Donna o uomo, cane o chissà cos’altro, il sentimento assoluto nega ogni problema di rappresentazione politica e ci restituisce per ciò che siamo: una voce umana alla deriva in una comunicazione che è finita, e che avremmo voluto portare avanti per sempre, nel salotto spoglio della nostra bruta solitudine.

Un po’ come la wrecking ball che risuona giocosamente alla fine, si tratta di demolizione: amare significa scegliere da chi si vuole essere distrutti, diceva Susan Sontag, e il telefono, aggiungerei, è l’arma perfetta.

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