C’era una volta la Weltliteratur, la letteratura mondiale sognata da Vico e Goethe; era fondata su un’idea di umanesimo condiviso e su una prospettiva storica unidirezionale. Nei due secoli successivi si è verificata la progressiva mondializzazione economica con conseguente omologazione culturale; precocemente intuendola nel 1952, Erich Auerbach scriveva che in tal modo «l’idea della Weltliteratur verrebbe realizzata e al tempo stesso distrutta».

Oggi la letteratura forte ci viene incontro da ogni parte del mondo, generalmente tradotta; l’inglese ha un ruolo predominante, sia come mediatore per lingue difficili sia perché molti scrittori, per esempio africani o indiani, preferiscono scrivere direttamente in quella lingua (più spesso che in francese). Ma interessante è soprattutto quello che potremmo chiamare cosmopolitismo letterario: una voglia di evadere dalla propria lingua d’origine.

Da sempre, com’è ovvio, alcuni scrittori hanno scritto in lingua non-materna, o praticato ibridazioni: per Amelia Rosselli, apolide, l’inglese era una tragica fuga dai Padri; Joseph Conrad l’inglese lo ha imparato sul mare dopo una vita avventurosa e traumatica; per Franz Kafka il tedesco era la lingua della Legge; Vladimir Nabokov era poliglotta fin da bambino e la Rivoluzione lo ha sradicato; Milan Kundera era così carico di rancore che negò fin che poteva i diritti di traduzione in cèco dei suoi romanzi scritti in francese.

Adesso pare tutto più giocoso, più fashion, anche se la motivazione è politica: la Weltliteratur era un’illusione del Potere “bianco”, il nuovo dettame inclusivo impone di sentirsi cittadini del mondo. Dal minimo osservatorio italiano, ecco Francesco Pacifico che collabora col traduttore americano del suo Class, poi riscrive la versione italiana per l’Oscar Mondadori ritraducendola dall’inglese; Claudia Durastanti è naturalmente bilingue, Jumpha Lahiri ha aggiunto l’italiano all’inglese e al bengalese, Vincenzo Latronico triangola tra italiano inglese e tedesco.

Per Pacifico e Latronico è evidente il desiderio di allontanarsi dalla retorica dell’italiano tradizionale, lingua di burocrati, di avvocati e di preti. Lahiri spiega che vuole scrivere in italiano proprio perché lo conosce poco, e quindi è una lingua che le consente di «acquistare spazio, spazio vuoto».

Si scrive in un’altra lingua per liberarsi dai condizionamenti; Michela Murgia affronta l’impresa eroica di imparare il coreano perché è una lingua che non ha distinzione di genere maschile o femminile. Il genere condiziona, certo, pensiamo a quelle lingue come il bantu dove c’è un genere per le persone (maschi o femmine che siano) e uno per le cose inanimate, e a ciò che ha voluto dire in termini di animismo religioso. Se un tempo la lingua era una rivendicazione di unità nazionale («una d’arme, di lingua, d’altare» scriveva quel grande poeta polacco che è il Manzoni di Marzo 1821), ora fuggendo dai nazionalismi si gioca a nascondino tra le lingue.

Se ogni lingua porta con sé una visione del mondo, ora spunta l’arroganza di pretendere visioni del mondo à la carte. Un vecchio come me si chiede: che ne è della madre lingua? Far fare meno fatica ai traduttori è giusto? Un onore della lingua non è proprio essere intraducibile (come la Commedia o l’Oneghin)? Aggiornare una lingua letteraria può voler dire semplificarla? E che ne è della lingua che ti parla dentro, risalendo dalle profondità dell’infanzia? Anche l’inconscio è mondializzato? Una lingua è memoria, cioè storia, non dovrebbe portarsi addosso le colpe, le miserie, le differenze? Scavalcarle è uno dei prezzi da pagare per trasformare il tramonto in un’alba di speranze? Dall’ossessione dell’uguaglianza sta nascendo una nuova forma di aristocrazia? Domande.

© Riproduzione riservata