Perché un comico italiano dovrebbe tradurre il suo materiale in inglese e partire all’estero per lavorare nei comedy club di Londra o New York? Me lo chiedo anche io da più di dieci anni e, viste le difficoltà sempre crescenti che ostacolano gli spostamenti tra un paese e l’altro, me lo chiedo sempre più spesso. Insomma, chi me lo fa fare?

Tutto risale al 2009, quando Internet fece scoprire i comedian anglosassoni a me e ai miei colleghi italiani, di cui fino a quel momento ignoravamo le gesta. Internet spesso ha un nome e un cognome e in questo caso si fa riferimento a un gruppo di traduttori professionisti (la pagina si chiamava Comedysubs) che sottotitolarono alcuni miti di quella tradizione, da George Carlin a Chris Rock, da Bill Hicks a Sarah Silverman.

E poi ancora Ricky Gervais, Steven Wright, Richard Pryor e compagnia parlante. Un’espressione nuova si aggiunse al nostro vocabolario: “stand up”, e per me aveva un sapore del tutto nuovo. Dico per me, perché per anni si sarebbero succeduti sterili, inutili e noiosissimi dibattiti sulla differenza tra questa esotica stand up e il cabaret made in Italy: «Qui in Italia la stand up esiste da anni», «è solo una questione di marketing», «e allora Walter Chiari?». Due palle come il Madison Square Garden.

Comici del consenso

È vero, in Italia i monologhisti comici non sono mai mancati (Walter Chiari è tra i miei preferiti, per dire), però sono sempre stati in minoranza rispetto alla saga di sketch, personaggi e parodie e soprattutto hanno cercato con il pubblico una condivisione estrema di temi e di toni.

Tolta qualche eccezione, i monologhisti italiani, soprattutto in tv, hanno sempre dato allo spettatore quello che cercava: la conferma del proprio punto di vista. E per questo gli argomenti sono stati per decenni il traffico, la suocera, le poste, i matrimoni, il rapporto uomo-donna, i cliché regionali e così via. Sono quei pezzi che cominciano con «avete notato che…», «vi è mai capitato di…», così che il pubblico non dovesse fare alcuno sforzo di comprensione. Un modello estremamente popolare e di successo, non solo in tv.

Temi controversi

Quei comici angloamericani che guardavamo con i sottotitoli, e che il Madison Square Garden lo riempivano, invece parlavano di temi controversi, usavano parole forti, mettevano in discussione la moralità degli spettatori, i quali, dettaglio fondamentale, ridevano tanto.

Una differenza che a noi del gruppo Satiriasi, primo embrione di stand up in Italia, ci appariva chiara: le voci di quei comici erano molteplici, diverse tra loro, nei contenuti e nelle forme, dal cinico al surreale, in un mercato in cui la complessità faceva mercato.

Niente a che vedere con l’omologazione che si riscontrava da noi. Quella comicità era straordinaria: i comici non si servivano di autori, non improvvisavano con il pubblico, esprimevano nel modo più originale e possibile il loro punto di vista sul mondo e sulla vita.

La commedia all’italiana

Spesso si pensa che la differenza tra qui e lì sia nella libertà di espressione, ma non sono d’accordo: nel Regno Unito e negli Stati Uniti in televisione vigono codici molto più restrittivi dei nostri, quei monologhi scorretti sono registrati in teatro, con pubblico pagante; e anche in Italia, nel suo spettacolo dal vivo, un comico può esprimersi senza troppi vincoli.

Il punto non è la libertà, ma la verità. Al netto delle iperboli, quella comicità è più vera, racconta la vita per quello che è, senza paura di affrontarne scabrosità e malinconie. Per questo, più che con il cabaret, il filo che lega la stand up alla nostra tradizione è con la commedia all’italiana, genere che andrebbe mostrato alle nuove generazioni e di cui dovremmo tutti esserne più orgogliosi quando siamo all’estero.

Comedy club

Ma c’è un’altra differenza che mi sembra cruciale: i comedy club. Quella varietà di voci è garantita da una concorrenza che si basa sulla molteplicità di locali che permettono quotidianamente di salire su un palco e provare i pezzi davanti a un pubblico spesso di 20-30 persone. Solo così si crea un circuito, solo così si diventa bravi (se i comici più famosi e ricchi al mondo continuano a lavorare in questi posti per pochi spicci un motivo ci sarà).

A Londra, a New York e nelle altre città ogni pub ha un sottoscala o una soffitta dove si organizzano open mic o serate di professionisti. Alcuni locali sono diventati leggendari, come il Comedy Store a Londra (dove mi sono esibito) o il Comedy Cellar di New York (dove non mi sono esibito). Da noi per decenni ce ne sono stati davvero pochi, una percentuale minima rispetto ai numeri di questi paesi e sono ambienti fondamentali per un comico che vuole trovare la propria voce, creare il suo pubblico ed esprimersi senza mediazioni davanti agli spettatori.

Il sogno

All’inizio della mia carriera queste differenze mi portarono a una previsione: la stand up comedyin Italia non arriverà mai, faccio prima a imparare l’inglese e tradurre il mio materiale. Per questo ho cominciato a esibirmi all’estero ed è stata un’esperienza fantastica, perché sono uscito dalla mia comfort zone, perché mi sono confrontato con un mare di gente e perché se vuoi diventare bravo, devi stare dove sono i più bravi.

Però, adesso che abbiamo la prova di quanto fosse sbagliata la mia previsione dieci anni fa, ora che in Italia la stand up si sta affermando e stanno nascendo nuovi comici, nuovi locali e soprattutto tanti spettatori giovani, ha ancora senso girare il mondo con la valigia per fare questo mestiere, sacrificando tempo e denaro, sopportando cucine discutibili e bagni senza finestre, affrontando gli uffici immigrazione di altri paesi, in tempi di Brexit e chiusura delle frontiere, guerre e pandemie? Di nuovo, chi me lo fa fare? Un sogno. Il sogno di esibirmi al Comedy Cellar di New York. Potrà sembrare stupido, lo so, ma i sogni sono quelle luci per cui vale la pena svegliarsi la mattina.

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