La nebbia a Modena non è un paesaggio. È il mondo che si ritira di qualche passo, come se volesse lasciarti solo con ciò che resta quando tutto il resto si sfoca.
Ieri la città emiliana ha ripreso un’abitudine che pareva scomparsa: la nebbia.

Non quella cartolina romantica, ma la nebbia vera, quella che ti mette il mondo a distanza di sicurezza, come se la realtà avesse deciso di parlare più piano. E in quella sospensione, che oggi continua, perché “non vediamo un granché”, Franco Vaccari se n’è andato così: dentro una città che conosceva a memoria e che, per salutarlo, ha rimesso in scena quella sua antica lezione padana, guardare e non vedere, vedere e capire che il vedere non basta mai.

Vaccari aveva scelto la fotografia non per fermare il tempo, ma per ascoltarlo mentre scappa. Non cercava la bella immagine: cercava l’evidenza. Quella che la fotografia porta con sé come una dichiarazione silenziosa: “è stato”. Un volto è stato qui, una mano ha sfiorato una spalla, una coppia si è stretta in un rettangolo di luce, un ragazzo ha fatto una smorfia per non tremare. Poi tutto passa. Eppure resta. Ma resta nel modo in cui restano le cose vere: come segni, non come oggetti.

E la traccia, per definizione, è la forma più gentile della perdita: non è la cosa, è il segno che la cosa è stata lì. Per questo la fotografia non “ferma il tempo”, semmai lo denuncia. Ti costringe a guardare la contraddizione senza appello: che quell’istante è già passato, che quel volto è già cambiato, che quella posa, anche la più spavalda, è fragile perché dura quanto dura una striscia di carta chimica.

La fotografia come dispositivo

La fotografia non ti consola: ti mostra l’evidenza, con la calma crudele delle cose automatiche. «Non è importante che il fotografo sappia vedere, perché la macchina fotografica vede per lui» aveva teorizzato nel fondamentale La fotografia e l’inconscio tecnologico, Einaudi 2011. Pubblicato per la prima volta nel 1979 per le edizioni Punto e virgola di Luigi Ghirri.

Aveva capito presto ciò che Walter Benjamin aveva sussurrato: che la tecnica scopre un inconscio del visibile, un sottofondo che l’occhio non coglie. Ma Vaccari faceva un passo ulteriore, più spietato e più tenero insieme: non è solo la macchina che svela è la macchina che produce, che orienta, che addestra. C’è un inconscio tecnologico che ci attraversa: la fotografia non è uno specchio: è un dispositivo. E il dispositivo, come un piccolo destino, decide parte della storia.

Per questo, quando portò una cabina Photomatic dentro l’arte, non fece un gesto pop, non fece un gioco. Fece un gesto morale: tolse di mezzo l’autore e mise al centro il passaggio. Disse, senza retorica: lascia una traccia. E la traccia non è mai innocente. È una promessa e un addio nello stesso istante. Si appiccica al muro, si accumula, diventa folla, diventa coro. E intanto ogni striscia mormora la frase di Barthes, quella che la fotografia ripete sempre, anche quando non la vogliamo ascoltare: questo è stato… e quindi non è più.

Raccolta di scarti

In una fototessera c’è la cosa più umile e più vertiginosa: l’identità trasformata in carta. La fotografia nasce per l’anagrafe, per dire “io sono io”, e Vaccari la rovescia: mostra che “io” è un teatro brevissimo. Dentro la cabina la gente recita, si corregge, si maschera, si espone. Ed è qui che Vaccari diventa, con una parola che sembra minore e invece è enorme, un collezionista di fototessere abbandonate.

In Photomatic d’Italia (1973–1974) dissemina l’Italia di un invito: in oltre 700 cabine mette un poster («cercasi volti per un film») e chiede alle persone di lasciargli una striscia di fototessere in una scatola metallica dentro la cabina. Poi passa, osserva, ritira le strip, fotografa le cabine: ricompone tutto e firma. Non raccoglie capolavori: raccoglie scarti. E lo scarto, più di ogni cosa, somiglia alla vita.

Qualcuno lascia quelle strisce e se ne va, le abbandona come si abbandona un pensiero troppo intimo. E proprio lì nello scarto, nel residuo, nella fotografia dimenticata, l’immagine diventa più vera: perché somiglia alla vita, che non archivia con ordine, che lascia resti ovunque, che si distrae e poi sparisce. Perché la morte, nella fotografia, non è solo il lutto finale: è l’idea che ogni immagine nasce già con una scadenza emotiva. Ogni “traccia” è una promessa e una perdita insieme. E la sua grande invenzione, le Esposizioni in tempo reale, ci mette davanti proprio a questo: l’opera accade, cresce, si accumula… e poi finisce. Non perché fallisce, ma perché è viva: dura il tempo di un incontro, di una partecipazione, di un gesto ripetuto da sconosciuti.

Smontare il futuro

Che cos’è un’immagine, allora? Non un oggetto. Non un quadro. Un’immagine è un atto che continua quando tu hai già smesso. Un’immagine è un contatto: la pelle e la luce, la macchina e la paura, il desiderio di essere visti e la vergogna di esserlo. Un’immagine è un accordo tra il mondo e la tecnica, e noi nel mezzo piccoli, spesso inconsapevoli come attori chiamati sul palco da un meccanismo che non dorme.

Vaccari è stato un profeta proprio perché non ha cantato il futuro: lo ha smontato. Ha mostrato che la modernità non sarebbe stata una galleria di capolavori, ma un’enorme produzione di tracce in tempo reale. Che l’autoritratto sarebbe diventato una lingua comune. Che la prova di esistere sarebbe passata sempre più spesso da una macchina. E che in quella prova, anche quando sorridiamo, c’è sempre una nota scura: la certezza che tutto ciò che appare è, già, un po’ perduto. È stato il maggiore artista concettuale italiano.

Oggi Modena non vede un granché. La nebbia tiene le cose lontane, come se avesse pudore. Ma forse è il modo più giusto per salutare Franco Vaccari: lasciando che il mondo sia sfocato, e che al centro resti soltanto ciò che lui ha inseguito per tutta la vita, la traccia sottile del passaggio umano, quella piccola striscia di luce che dice: sono stato qui, e intanto se ne va.

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