Opposti a contatto, ruoli che fluttuano: col loro nuovo film, America Latina, la rivoluzione poetica dei gemelli D’Innocenzo si conferma essere soprattutto quella di non distinguere nettamente dove risiedono bene e male, pur puntellando il processo – doloroso, a volte insostenibile – di tenerezza.

Fabio e Damiano, fratelli lunari, anche in senso astrologico (sono nati sotto il segno del Cancro, governato, secondo la tradizione, dal satellite terrestre) si tengono per mano nelle foto e sui red carpet coi loro completi Gucci, e per mano ci conducono negli anfratti rimossi del cuore, individuale e aggregato, del singolo e della famiglia.

Il loro tema ricorrente e pulsante è la confusione morale, l’assenza di consistenza etica da cui spesso deriva l’efferatezza, l’abuso, solo che – e qui passa uno dei tratti del genio – tutto ciò viene mischiato all’innocenza e al potere dell’infanzia e dell’amore, al furore infantile e amoroso che ogni cosa fa finire e poi ricominciare.

Il mondo (forse) salvato dagli amanti e dai ragazzini, dalle ragazzine, in un questo nuovo, terzo film che indossa i panni del thriller, gli unici adeguati, secondo i D’Innocenzo, per parlare d’amore.

Estremi che flirtano

C’è qualcosa di profondamente carismatico e seducente in questo connubio di polarità, estremi che flirtano, e America Latina non fa che ribadirlo.

La trama è più semplice e dritta rispetto a Favolacce: Massimo Sisti, un facoltoso, integerrimo e mite dentista padre di famiglia (il sempre ipnotico Elio Germano), vive nei territori bonificati della provincia laziale attorno a Latina (e qui viene in mente l’esplorazione dell’eredità fascista compiuta da Alice Urciolo nel romanzo Adorazione) con la moglie (Astrid Casali) e le due figlie adolescenti, trio che nell’iconografia rievoca/omaggia Il giardino delle vergine suicide.

Un giorno di primavera Massimo rientra nella sua villa con piscina e giù, al centro della cantina, si imbatte in qualcosa di incredibile e paralizzante. «Ti ricordi chi ti ha messo qua?», mormora alla creatura imbavagliata. E poi: «Non sono stato io».

Allucinazione, amnesia, rimozione, colpa? Ogni spiegazione lascia il posto a una ancor più lacerante. Parte così, nelle strettoie asfissianti della sua mente sconvolta, la spirale di dubbi e sospetti, verso la moglie e le figlie, bellissime, candide e poi troppo candide, quindi diaboliche, verso gli amici, e poi verso sé stesso.

Spirale che diventa in fretta uno strappo psichico sempre più ramificato e ingestibile, sebbene annaffiato di psicofarmaci e alcol, dato che la presenza in cantina, presenza viva – da accudire e poi tentare di affogare, dissetare e progettare di seppellire nei campi – sussurra, chiede di essere vista, mettendo a repentaglio la perfezione più che meritata di una vita di impegno e devozioni, ovvero minacciando di tramutare il marito/padre/datore di lavoro perfetto nel mostro da cronaca nera – molestatore, pedofilo, rapitore, omicida.

L’amore

La salvezza – a metà, ci si salva sempre mutilandosi – arriverà forse solo dalla condivisione, dalla messa in comune. Dall’amore, appunto, che per i due fratelli è poi il tema centrale di America Latina: «Amore è ricongiungersi con dei fantasmi, delle ossessioni, con una grandissima suspense, con l’incertezza sull’avvenire, con la dolcezza ma anche con delle variabili impazzite, quindi col thriller. L’amore, ogni tipo d’amore, fa decollare la vita nel territorio dove dovrebbe essere sempre».

I D’Innocenzo hanno una capacità unica di incisione psichica sullo spettatore: modulano scene che si fissano e diventano nuovo immaginario. Se in Favolacce restava indimenticabile il canto che diventava urlo straziante, sulle note di Paolo Meneguzzi, della futura madre senza speranza (Ileana D’Ambra), uno dei punti più perturbanti di questo terzo lavoro arriva con l’escalation plurisensoriale in salotto, che non distingue la follia, forse criminale, dall’amplesso, forse incestuoso, sovrapponendo i rantoli dalla cantina agli esercizi al pianoforte della figlia più piccola del protagonista, fino al gesto che diventa davvero inconsulto.

Sempre senza venir meno all’insinuazione: la presenza in cantina è dunque reale? Parla dell’inconscio personale o collettivo, del protagonista o di tutti noi? Di tutti i nostri desideri non visti, negati, infognati, e tornati a chiedere una contropartita, in questa società della performance che esalta il ruolo e il profitto e stritola il sentire.

Decostruzione maschile

America Latina è anche un film di decostruzione del maschile: un film sui padri beta e non alfa, sul maschile che accetta le componenti tradizionalmente relegate tutte nel femminile e, per averlo fatto, ne paga il prezzo. Un film sulla nostra personale palude buia contrapposta all’immaginario di gloria che proviamo a proiettare su noi stessi e sugli altri: costruisce a suo modo un’allegoria ma la tratta con la carnalità e la ferocia di una storia reale.

Come un’altra coppia di celebri fratelli parecchio abili con le storie, Jacob Ludwig e Wilhelm Karl Grimm, il talento di Fabio e Damiano D’Innocenzo si irradia nel territorio della fiaba, e le fiabe moderne dei fratelli D’Innocenzo a volte spiazzano, innervosiscono, indispongono.

Le loro sceneggiature sono confuse, lacunose, copiano, hanno copiato – si sente dire. Come se confusione, assorbimento e ibridazione di ciò che si è appena visto non fossero due tratti salienti del mondo in cui ci muoviamo oggi.

Mischiare ed esplorare senza più balaustra, dentro e contro i generi, dentro e contro ciò che è già stato: tutto è insieme classico, archetipico, e attualissimo nei lavori dei gemelli D’Innocenzo, anomalia luminosa e umbratile del cinema italiano e presto internazionale (hanno da poco annunciato che il loro prossimo film sarà americano) che mastica maestri e modelli per poi sputarli e mettere al mondo strani oggetti narrativi, che si riferiscono principalmente a loro stessi.

Spingersi oltre

Oggetti che infastidiscono e non danno risposte, ma continuano a mettere in moto il grande gioco dell’immaginazione, in una danza psichica che esplora la nostra comune condizione di fragili soggettività contemporanee, rischiarate solo a tratti dai bagliori delle piccole irruzioni del bene.

Un cinema, quello dei due fratelli romani, animato da un coraggio che in Italia mancava, un cinema che sa spingersi oltre, giù nel fosso del cuore, individuale e della comunità, e proprio come i bambini può tutto, ha l’ardire di toccare, essere tutto: fare prigionieri e mettere bombe che radano al suole la famiglie ingiuste, benché naturali, nascondere segreti osceni in cantina e servire a tavola torte fumanti che sembrano cadaveri da sezionare, dentro e fuori le suggestioni romantiche e insieme inquietanti, cucendo insieme i lembi dei territori semantici che molti, troppi vorrebbero divisi.

Lo sguardo dei gemelli D’Innocenzo è sguardo adulto e infantile, e in questo senso serissimo: non si accontenta delle costruzioni difensive che via via edifichiamo crescendo, ma sbircia al di là di esse, nel terreno ribollente e affollato di contraddizioni che precede le partizioni con cui i grandi tentano di proteggersi, negando la contiguità di idillio e incubo, vittima e carnefice, brutalità e tenerezza.

Quando capita di vederli parlare fianco a fianco nel corso delle interviste nella loro somiglianza lievemente variata – ciocche abbassate/alzate, diverso colore della camicia, movenze differenti nell’atto di ascoltare l’altro – si ha la sensazione di esser di fronte a un continuo, perturbante segreto di fondo. E il loro cinema per ora è parso provenire proprio da quel medesimo fondo segreto. Lunare e bambino, spietato e tenerissimo.

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