Quella del riciclaggio è una nobile arte. Tecnicamente, il green cinema ha anticipato l’era della green economy. È green, metaforicamente, quella corrente di cinema che inventa nuovi linguaggi riciclando materiali e stilemi obsoleti. È come recuperare il litio dalle batterie rottamate, business in crescita esponenziale: tieni il materiale non deperibile e butti via il resto. Quentin Tarantino ha fatto di questo esercizio amatoriale una scuola.

Al posto dei classici

I mercati si stanno attrezzando per i nuovi consumi, che saranno trainati dalla realtà virtuale. Nel quadro che si delinea, il green cinema – se accettate questa definizione – prenderà il posto dei classici, del preistorico cinema autoriale. Chi è cresciuto tra le distopie letterarie – distopie che peraltro forniscono il miglior combustibile non inquinante per lo show business da grandi incassi – può permettersi uno sguardo zen. Niente si crea, ma niente si distrugge, in ultima analisi. L’autore-riciclatore, a suo modo, si fa garante della memoria.

Il nuovo cinefilo-tipo si alimenta di frattaglie rielaborate. Catalogarle, disporle in bell’ordine sullo scaffale, ognuna con la sua bella etichetta d’annata, è una forma di disciplina e il fronte della sua militanza. C’è una generazione X che conosce solo il cinema predigerito da Tarantino e dai grandi fabbricanti di immagini che come lui lavorano su materiale non proprio, privatizzato per usucapione. Come dal crogiuolo degli alchimisti, le sostanze primarie escono promosse a una nuova esistenza più stimolante, più “cool”.

Il riciclaggio uso schermo ha un difetto: richiede capitali. Non puoi finanziarti vendendo la collezione di figurine, come ai bei tempi eroici di Kevin Smith e del suo Clerks, che sembrava la strada da battere per tutti gli innovatori. In Italia, oggi, fare film “alla Tarantino” è merce proibita. Ecco perché agli occhi di noi provinciali un film come Freaks Out di Gabriele Mainetti ha il profumo di certo jazz di contrabbando sotto il fascismo o del rock clandestino nell’Urss degli anni Sessanta. È uno schiaffo al minimalismo autarchico delle due-camere-e-cucina, in cui non ci è per niente dolce naufragare. Trabocca di effetti speciali. Profuma d’America e di supereroi, profuma di altrove, di quei posti che hanno (ancora?) il controllo dei soldi veri. I soldi forse non comprano la felicità, ma la fantasia sì.

Il vero budget di Freaks Out è top secret. Oltre i dodici milioni, ma “quanto” oltre è un mistero. Per gli standard italiani è uno sproposito, ma non è una bazzecola neanche per gli standard americani. Non che a Mainetti, da dieci anni anche produttore in proprio, in famiglia i soldi difettino: non sto svelando un arcano, e non c’è niente di male. Per amministrare un budget del genere la pratica non si improvvisa.

Dunque, la “cosa da un altro mondo” si materializza e per noi è una preghiera esaudita: abbiamo il nostro autore-riciclatore di casa, che pesca dal salotto buono del cinema mondiale frammenti di un amarcord rigorosamente firmato. E per lo spunto dei supereroi “de noantri”, con Jeeg Robot alle spalle, non ha nemmeno bisogno di prestiti: gli basta copiare sé stesso.

Eviterò le parole “omaggio” e “tributo”, che sanno di naftalina. Ogni cultore del green cinema della maturità le ha bandite sdegnosamente dal proprio vocabolario. Diciamo che il primo “litio” recuperato è il circo. Due circhi, anzi: quello indigeno, dei poveracci (=oppressi ) si chiama “Mezzapiotta”, ha un direttore che il nome – Israel – dichiara ebreo (Giorgio Tirabassi) ed è travolto dall’armistizio dell’8 settembre. Quello ricco, d’importazione, è il Zirkus Berlin, braccio circense delle armate del Reich (=oppressori).

Etichette ripescate

Prima etichetta per lo scaffale, facile facile: Freaks di Tod Browning, cult d’ordinanza dal 1932, capolavoro feroce e struggente. Oltre al circo e ai suoi abitanti speciali, fornisce anche il titolo. Frattaglie rimasticate di lusso, debitamente purgate della radicalità originaria, che farebbe scappare i bambini.

Per la seconda etichetta purtroppo non ho l’età: una trasposizione su schermo a piacere dei Fantastic Four, creature di carta, intese come fumetto, firmate Stan Lee. Non sono una frequentatrice abituale del genere, stenterei a precisare. I “mostri” del circo povero sono veri supereroi, senza trucchi. C’è l’ammaestratore di lucciole (e di qualunque insetto censito). Pietro Castellitto ricicla il make up crepuscolare di tanto Tim Burton. C’è la calamita umana (Giancarlo Martini): nella cassetta degli attrezzi lo metteresti tra gli optional, ma all’occorrenza è prezioso. C’è l’uomo-lupo dalla forza erculea, che sotto i peli nasconde l’ex Jeeg Robot Claudio Santamaria. Ma soprattutto c’è la ragazza elettrica (Aurora Giovinazzo), potenzialmente la più devastante.

Sottotesto: cos’è ogni supereroe partorito dalla – e per la – cultura popolare, se non un freak? Un mostro, un diverso, un escluso dalla comunità dei “normali”. Assunto politicamente corretto fino al midollo.

Da Tarantino, che è l’istruttore capo del cinema fatto di cinema, arriva Bastardi senza gloria, ossia l’idea che si può cambiare la storia. The future is unwritten, il futuro non è scritto, cantava Joe Strummer. Non è scritto nemmeno il passato. Il rastrellamento di portico d’Ottavia, 16 ottobre 1943, potrebbe non imboccare la strada dei lager? Su scala bonsai, è come sopprimere Hitler con un blitz incendiario. Revisionismo della buona volontà: consola e non costa niente. L’umiltà impone di abbassare il tiro, rispetto al Maestro: scongiurare l’olocausto tout court sarebbe un atto di presunzione.

Per i partigiani del film si attinge al repertorio fluviale dei Robin Hood da blockbuster, con particolare riferimento a Robin Hood: Prince of Thieves, di Kevin Reynolds e con Kevin Costner, prima che il sodalizio tra i due Kevin si sciogliesse. Sembrano i dintorni di Roma, ma è la foresta di Sherwood. I partigiani sono simpatici e sbrindellati. Nessuno è davvero intero. Senza un occhio, un braccio, una gamba, è una corte dei miracoli degna del dimenticato ciclo di Angelica. Freaks anche loro, per condizione di minoranza e cinematografica solidarietà.

Il riciclaggio è un’arca, nel sentire postmoderno di chi lo pratica. Ha una missione: bisogna salvare il meglio dal diluvio della fine del cinema. È imperativo selezionare gli esemplari  di assoluta eccellenza. Per l’avventura la prima e unica opzione è lo Spielberg di Indiana Jones. La faccenda dell’arca, come si sa, inverte le gerarchie. Sono gli animali il bene primario, saranno loro a garantire un futuro del mondo abitato. Ma il capo della baracca è Noè. Fuor di metafora, il riciclatore al comando dispone di vita e di morte sui grandi autori. Di Spielberg si recupera I Predatori dell’Arca perduta e il resto si rottama. L’apocalisse finale riservata ai nazisti viene dritta da lì. 

Spigolando con scrupolo certosino si potrebbero rintracciare presenze sensibili dello Scorsese di Hugo Cabret, magari di prodotti seriali come Babylon Berlin, se uno non ha cose un po’ più urgenti di cui occuparsi. Il punto è che con questo corredo nuziale Freaks Out, nei propositi di Mainetti e di Nicola Guaglianone, che lo ha scritto con lui, si vende come rara merce italiana da esportazione.

Ambizione non peregrina, se non fosse per quella mezz’ora di battaglia finale che è pura zavorra. Un produttore di vecchia e solida razza andrebbe giù con l’accetta. Come fece il provvidenziale Grimaldi con Nuovo cinema Paradiso, se è lecito l’accostamento. Ma non si può, per  ragioni squisitamente mercantili. Quella battaglia ha ingoiato una fetta cospicua del budget. 

C’è un test decisivo. Un pianista nazi a sei dita attacca le note di Creep dei Radiohead. Se vi chiedete solo – come la sottoscritta – quanto diavolo hanno pagato in diritti, state pur certi: siete triviali e prosaici, il green cinema non fa per voi.

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