La corte rinascimentale era il regno dell’ostentazione fruttifera

Cibo è il nostro inserto mensile che racconta il mondo attraverso ciò che mangiamo. Esce l’ultimo sabato di ogni mese sulla app di Domani e in edicola. In ogni numero svisceriamo un tema diverso con articoli, approfondimenti e commenti: il tema del numero di questo mese è la frutta che diventa un lusso. Qui troverete man mano tutti gli altri articoli di questo numero. In questa pagina, invece, tutti gli altri articoli di Cibo, che è anche una newsletter gratuita. Ci si iscrive a questo link. Il sapore del futuro: quanto pesa il gusto nuovo che si coltiverà Nel Rinascimento, mentre Michelangelo scolpiva divinità nude e Leonardo progettava elicotteri che non avrebbero mai volato, c’era un’altra forma d’arte silenziosa ma inesorabile che si consumava tra gli stucchi dorati delle corti nobiliari: l’ostentazione fruttifera. La frutta, sì, quella cosa che oggi compriamo in confezioni biodegradabili al supermercato mentre valutiamo se spendere un euro in più per la versione “bio”, un tempo era l’equivalente di una borsa Hermès. Solo che non durava quanto una Hermès, anzi: durava quanto un morso. Ma che morso! Era un morso aristocratico, sapientemente messo in scena, un gesto di potere. Nelle corti rinascimentali, la frutta non era solo frutta. Era uno statement. Non serviva a nutrire, ma a dimostrare che si poteva nutrirsi senza preoccuparsi troppo della logistica. Perché avere fragole a dicembre, quando la neve ammanta ogni cosa tranne il feudo dei Medici, voleva dire una sola cosa: io posso. La frutta tropicale – che oggi arriva dall’altra parte del mondo avvolta in plastica e sensi di colpa ecologica – era nel Quattrocento una sorta di Pokémon leggendario: quasi mitologica, difficilissima da ottenere, e sempre più desiderata quanto meno era commestibile. L’ananas, per esempio, era talmente esotico che veniva esibito come un trofeo. In Inghilterra, se ne poteva noleggiare uno per farlo campeggiare sul tavolo dei banchetti. Non da mangiare, per carità: quello sarebbe stato volgare. Ma da guardare, come un Rembrandt in bilico sul vassoio. Potere dello sfarzo Anche in Italia, patria della raffinatezza e del finto disinteresse, la frutta divenne il simbolo di un potere tanto effimero quanto zuccherino. I Gonzaga, gli Este, i Medici: famiglie che forse non avevano mai sbucciato una mela in vita loro, ma che si facevano immortalare circondati da cesti ricolmi di fichi, ciliegie, mele cotogne e uve. Nel Trattato della natura de’ cibi et del bere di Bartolomeo Sacchi, detto Platina, pubblicato nel 1475, la frutta compare spesso come cibo raffinato ma ambiguo, da consumare con moderazione, possibilmente a fine pasto, e mai senza un consulto medico. Il motivo era chiaro: l’aria rinascimentale, già pesante di miasmi e superstizioni, era attraversata da un’idea ippocratico-galenica della dieta, per cui la frutta, fredda e umida per sua natura, poteva causare squilibri nei “quattro umori” del corpo. La frutta, così, si trasformava in spettacolo. I banchetti erano veri e propri teatri della digestione, e al centro della scenografia non c’era un T-bone di cervo, ma un trionfo di frutti disposti con tale perfezione da sfidare le leggi della botanica. Melagrane aperte come fiori, limoni tagliati a spirale, fichi farciti con mandorle e spezie orientali. Il tutto accompagnato da zucchero a pioggia, che serviva sia da dolcificante che da evidenziatore sociale: metterlo sulla frutta era l’equivalente rinascimentale del “placcato oro”. Meloni, manghi e uva pagati a peso d’oro: il caso giapponese e noi Messaggi cifrati Il Vasari, nella sua biografia di Jacopo Zucchi, cita le sue composizioni di frutta come esempi di arte raffinata, non solo perché erano pittoricamente notevoli, ma perché celebravano il gusto di una società dove l’abbondanza era una forma di comunicazione politica. E come dimenticare Arcimboldo, pittore di corte degli Asburgo, che trasformava imperatori in creature vegetoidi? L’imperatore Rodolfo II ritratto come un insieme di uva, ortaggi e fiori di campo, non era una caricatura, ma un’apoteosi regale. Un sovrano talmente potente da potersi permettere di essere fatto interamente di frutta. I giardini delle ville medicee – come quelli di Castello o Boboli – non erano semplici parchi: erano atlanti botanici viventi, progettati per stupire con limoni che crescevano come se fossero in Sicilia, ma con accento fiorentino. Agrumi rari venivano conservati in serre mobili, le “limonaie”, costruite per proteggere i preziosi frutti dalle intemperie: non si faceva tanto per i figli quanto per un cedro del Libano. Ma la vera ossessione era il melone. Non quello da supermercato con codice PLU, ma il melone “retato”, spesso offerto in dono tra sovrani come segno di pace o, in alternativa, come provocazione velata (“guarda cosa riesco a far crescere io, mentre tu sei ancora fermo al cavolo nero”). Il melone aveva il vantaggio di essere profumato, sensuale, difficilissimo da conservare: esattamente come la reputazione. C’è poi da dire che, in mancanza di frigoriferi, molta frutta si trasformava presto in marmellate, gelatine e mostarde. Non per praticità, ma per ostinazione a non buttare nulla di così lussuosamente deperibile. Arrivano i sommelier delle mele: se il menù della frutta cambia volto Illusioni E quando la frutta fresca non bastava, si ricorreva alla frutta finta. Sì, perché i cuochi rinascimentali erano degli illusionisti: con pasta di mandorle, zucchero e colori naturali, creavano frutti talmente realistici da ingannare anche il più affamato dei cardinali. Quindi nel Rinascimento la frutta era uno strumento di potere, un’arma estetica, una dichiarazione diplomatica servita a temperatura ambiente. Se oggi un avocado toast è segnale di brunch hipster, allora un fico d’India sul tavolo era un atto di d iplomazia gastronomica. E in fondo, forse, nulla è cambiato. Oggi postiamo insalate di mango su Instagram per far sapere al mondo che abbiamo tempo per tagliarlo a cubetti perfetti. Loro, invece, mettevano una pera su un piatto di porcellana di Limoges, lasciandola intatta: il messaggio era chiaro. «Potrei mangiarla. Ma non ne ho bisogno». [Missing Caption][Missing Credit]