Il frutto del drago che viaggia lungo la Via della Seta

Cibo è il nostro inserto mensile che racconta il mondo attraverso ciò che mangiamo. Esce l’ultimo sabato di ogni mese sulla app di Domani e in edicola. In ogni numero svisceriamo un tema diverso con articoli, approfondimenti e commenti: il tema del numero di questo mese è la frutta che diventa un lusso. Qui troverete man mano tutti gli altri articoli di questo numero. In questa pagina, invece, tutti gli altri articoli di Cibo, che è anche una newsletter gratuita. Ci si iscrive a questo link. Era la mattina delle scorso 18 dicembre quando la nave cargo della Cosco Shipping ha attraccato al porto di Yangshan di Shangai. Partita da quello peruviano di Chancay, ha impiegato poco più di tre settimane per raggiungere la Cina. Rispetto al passato, il vantaggio è notevole: dieci giorni in meno di viaggio, il 20 per cento in meno dei costi per la logistica. È una delle nuove rotte della Belt and Road Initiative promossa dal governo cinese, che poco più di un anno fa è riuscito a mettere le mani su un’infrastruttura chiave del Perù. Per il 60 per cento sarà la società statale Cosco a gestire per i prossimi sessant’anni il porto nuovo di zecca che si affaccia sul Pacifico, mentre la restante quota è detenuta dalla locale azienda mineraria Vulcan. All’inaugurazione di metà novembre, al fianco della presidente Dina Boulerte, c’era anche Xi Jinping in persona, arrivato nel paese sudamericano per una visita lampo, a conferma dell’importanza che lo snodo riveste per Pechino. Non potrebbe essere altrimenti. Quella che parte dal porto di Chancay Perù è una rotta fondamentale, che collega il Sud America alla superpotenza asiatica. L’intenzione è di far convogliare gran parte delle merci della regione, a partire dalla richiestissima soia brasiliana, ma anche prodotti dal Cile, Colombia ed Ecuador, per poi spedirle oltreoceano. Parliamo soprattutto di frutta, tanta frutta. Come quelle trasportata dal cargo sbarcato sulle coste cinesi a fine anno scorso. Dentro ce n’erano ben 20.000 tonnellate, tra avocado, mango, mirtilli e uva da tavo. Oltre alla pitahaya. Questo frutto tropicale, noto anche frutto del drago, si presenta in due versioni: rossa, quella più comune che presenta sia la buccia sia la polpa di colore violaceo e ha un sapore acidulo; oppure gialla, più delicata e un po’ più dolciastra, ma anche più costosa. Dove la frutta è oro: viaggio nei supermercati più costosi del mondo I suoi benefici per la salute sono evidenti: è ricco di antiossidanti, abbassa la glicemia, migliora l’equilibrio intestinale, aumenta i livelli di ferro e il suo assorbimento, riduce le infiammazioni. Per il Perù è stata una gioia nel vedere quanto fosse apprezzata in giro per il mondo. Solo nei primi due mesi dell’anno, ne ha esportate 388 tonnellate, pari a 1,1 milioni di dollari, ben sette volte di più rispetto allo stesso periodo del 2024. Più delle metà del suo export si basa su questo frutto, che piace soprattutto agli europei. Ma sempre di più anche ai cinesi. Tra gusto e mitologia Il consumo di pitahaya in Cina è cresciuto moltissimo negli ultimi anni. Chiamato frutto del qilin, in riferimento all’animale mitologico che nella tradizione locale è allo stesso tempo unicorno, cavallo, cervo e bue, viene mangiato soprattutto a fine pasto, come dessert, oppure riempito di riso glutinoso. Come spesso accade in terra d’Oriente, una spinta alla crescita di questo fenomeno arriva dalla cultura del posto. Non soltanto per le sue proprietà nutritive e antinfiammanti, che aiutano a guarire dalla febbre, ma anche per via dei colori accesi, che simboleggiano prosperità e armonia. Non è di certo un caso se la pitahaya viene regalata in occasione del Capodanno, o in altre circostanze speciali, per augurare il meglio a chi lo riceve. Il frutto del drago, tra l’altro, porta fortuna e allontana gli spiriti maligni. Tutto questo ha indotto gli agricoltori cinesi a piantarlo nelle loro terre, soprattutto nelle province di Guangdong, Yunnan e Hainan. Nel 2022 si contavano 1.300 ettari di terreno coltivato a pitahaya, ancora troppo poche per poter contare solo sul fabbisogno interno. Per questo Pechino si è rivolta per lo più al Vietnam, per logiche questioni geografiche, ma via via sempre di più anche all’Ecuador, leader indiscusso quando si tratta del frutto del drago rosso. La sua comparsa nel mercato internazionale ha comportato ingenti entrate al paese sudamericano, tanto da risollevare la situazione economica delle popolazioni indigene che ci fanno grande affidamento. A permettergli di diventare grande è stata quindi anche la Cina. Sebbene il mercato principale resti quello statunitense, seguito da quello di Hong Kong, l’accordo di libero scambio - firmato tra il governo di Quito e quello di Pechino ed entrato in vigore a maggio dell’anno scorso - ha portato a un aumento delle esportazioni della pitahaya. In realtà l’accordo era il culmine di un processo iniziato molto prima. Era dal 2012 che il governo ecuadoriano aveva presentato la richiesta di poter vendere la pitahaya nel mercato cinese, ma a ostacolare il via libera erano delle questioni fitosanitarie su cui Pechino voleva essere rassicurata. Una delle preoccupazioni principali era la mosca della frutta, ma dopo vari controlli è arrivata la luce verde. L’Amministrazione generale delle dogane cinesi aveva infatti consentito l’accesso del frutto nell’aprile del 2023. Con l’intesa raggiunta un anno dopo, inoltre, è stato eliminato il dazio del 20 per cento in modo da aumentare i carichi delle spedizioni. Il primo carico di pitahaya gialla è arrivato a Shanghai ad aprile di due anni fa, contenente oltre 7.700 chilogrammi. Ci ha messo appena tre giorni, dopo essere stato caricato su un aereo decollato da Quito, grazie al corridoio verde aperto dalle autorità doganali cinesi. Meloni, manghi e uva pagati a peso d’oro: il caso giapponese e noi Uno snodo rivoluzionario C’è chi parla del porto di Chancay come l’inizio di una nuova era per l’America Latina. Per alcuni invece è solamente la conferma di un fenomeno che si sta semplicemente velocizzando. Che gli Stati sudamericani guardino alla Cina non è una novità e il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca è stato un ulteriore incentivo. Basti pensare ai dazi o alla questione dei migranti, che hanno preso di mira molti paesi della regione, spingendo questi paesi verso la superpotenza asiatica. Il caso della Colombia il più evocativo, oltre che più recente. Dopo la lite con Washington per il rimpatrio forzato di alcuni migranti irregolari che l’amministrazione Trump ha rispedito indietro con modalità considerate da Bogotà come «degradanti», il braccio di ferro si è concluso con un accordo che equivalse a una resa del governo colombiano alle condizioni del tycoon. Già allora il presidente Gustavo Petro guardava alla Cina con interesse, formalizzato durante visita dello scorso maggio con l’adesione alla Nuova Via della Seta. Aumentando così il numero di paesi del Centro e Sud America che hanno deciso di farne parte. Di progetti infrastrutturali ce ne sono a decine, ma molti sono falliti a causa della corruzione e la mala gestione. I vari problemi hanno portato il governo cinese a ridurre la portata dell’intero piano, puntando su quelli più importanti (il mantra è: piccoli, ma belli). Ecco perché di Chancay potrebbe diventare il fiore all’occhiello. Lungo 1.500 metri, il porto presenta quattro ormeggi ed ha la capacità di gestire 1 milione di TEU all’anno. Un investimento da 1,3 miliardi di dollari, che dovrebbe generare un indotto da 4,5 miliardi, dando lavoro a circa 8.000 persone. Oltre al progetto in sé, ce ne sono altri collaterali, a cominciare dalla rete ferroviaria necessaria per far arrivare i prodotti della regione. Come anticipato, anche se il detto “da Chancay a Shanghai” è diventato un modo per indicare l’enorme distanza tra le due sponde, più che un collegamento tra Perù e Cina è un ponte tra Sud America e la terra del Dragone molto più rapido rispetto al passato, quando bisognava attraversare il Canale di Panama. Anche il paese caraibico è finito al centro delle invettive di Trump, che si era lamentato dell’eccessiva influenza cinese nell’area, portando il presidente José Raul Mulino a rescindere l’accordo sulla Via della Seta siglato con Pechino nel 2017. Una conferma di quanto a Washington temano una presenza eccessiva dei rivali davanti l’uscio di casa. Un timore che il porto di Chancay potrebbe contribuire ad alimentare, visto che dovrebbe cambiare faccia al commercio globale. A dare un’idea è Raul Peréz Reyes, ministro dei Trasporti peruviano: l’obiettivo, ha dichiarato, «è diventare la Singapore dell’America Latina, in modo che le merci provenienti di porti passino da qui quando vanno in Asia. Se qualcuno che viene da Brasile, Venezuela, Bolivia, Paraguay e Argentina vuole andare in Asia, dovrebbe pensare al Perù come punto di riferimento». Chancay tra l’altro non è l’unica infrastruttura portuale in Perù su cui il governo cinese ha messo le mani. Sempre lo scorso anno, a marzo, il governo di Lima ha annunciato che la gara d’appalto per la costruzione di un nuovo terminal nel terzo porto più grande del paese, quello di San Juan de Marcona, se l’era aggiudicata la filiale locale dell’azienda cinese Jinzhao. Un altro potenziale punto di partenza per la pitahaya. [Missing Caption][Missing Credit]