Da molti anni, in Nord America, i musei e altre grandi istituzioni culturali sono impegnate a ripensare, a volte a ricucire, il loro rapporto con il pubblico cercando nuovi e più equi rapporti con le comunità di afferenza.

La necessità al cambiamento è mossa dalla rapida trasformazione della società. Negli Stati Uniti quasi il 50 per cento della popolazione sotto i 25 anni è formata da persone non di etnia bianca, genericamente definite people of color (di discendenza sudamericana, africana, asiatica). Questi giovani non sono interessati a un’offerta culturale monolitica, ma cercano proposte culturali con cui potersi identificare.

La necessità di rimanere rilevanti spinge i musei al cambiamento. Questa evoluzione ha spesso trasformato radicalmente il loro modo di operare. Ad esempio, è stato messo in discussione il collezionismo di opere e oggetti che hanno un forte valore identitario per le culture di provenienza. La “decolonizzazione” delle collezioni comporta la restituzione di opere ai paesi di origine, ma ha anche aperto la porta alla discussione di cosa fosse legittimo esporre.

Alcune mostre già in programma sono state cancellate o posticipate. Queste decisioni hanno esacerbato il dibattito pubblico che spesso si muove tra due estremi opposti: da un lato la censura e l’autocensura (per certi versi pruriginosa e bigotta) e dall’altro l’accusa di insensibilità culturale (occasionalmente interpretabile come sopraffazione ideologica).

A noi la cosa interessa perché grandi cambiamenti demografici sono in atto anche in Italia. I musei nordamericani sono per certi versi lo specchio del nostro futuro. Le conversazioni sempre più frequenti sulle politiche di genere sono buona indicazione che il vento del cambiamento comincia a soffiare anche da questa parte dell’oceano.

Per fare luce su alcuni aspetti scottanti del dibattito culturale in corso nei musei nordamericani ne ho parlato con Kaywin Feldman, direttrice della National Gallery of Art di Washington e Sasha Suda direttrice della National Gallery del Canada.

Feldman e Suda dirigono come me istituzioni nazionali finanziate con fondi pubblici e sono dunque in prima linea nel difficile rapporto tra istituzioni, progetti culturali e aspettative del pubblico.

Martina Bagnoli: Negli ultimi anni la costruzione di un rapporto fiduciario con un pubblico sempre più ampio e in evoluzione ha mutato il modo di operare dei musei; adesso però sembra che si possa mettere in discussione non solo come fare ma anche cosa mostrare. Siete d’accordo con questa caratterizzazione?

Kaywin Feldman: Direi che si tratta del cosa e del come insieme. Prendiamo ad esempio la grande retrospettiva dedicata a Philip Guston che ho deciso di posticipare (Philip Guston Now, originariamente prevista per il 2020 e ora programmata per il febbraio-maggio del 2023). La mostra è curata dal maggiore esperto vivente del grande pittore americano, il quale – proprio in qualità di esperto – voleva avere autorità assoluta su come presentare l’esposizione. Ma alcune delle opere di Guston sono dedicate alla rappresentazione del terrorismo razzista del Ku Klux Klan. Queste tematiche sono dolorosissime per la comunità african-american per cui, seppure le opere di Guston siano volutamente ironiche e critiche, la loro esibizione poteva risultare dolorosa per molte persone. Per questo motivo, dopo averne parlato con il personale di custodia, che al museo è prevalentemente african-american, ho deciso di posticipare la mostra che altrimenti si sarebbe svolta proprio nel momento in cui il movimento del Black lives matter riempiva le piazze di manifestanti.

Martina Bagnoli: Posticipata quindi non cancellata.

Kaywin Feldman: Sì, posticipata perché il momento non era opportuno per presentare quelle opere partendo da un solo punto di vista: quella del critico d’arte bianco. Non si tratta di censura ma piuttosto di allargare il cerchio delle competenze. Per esporre immagini controverse che possono, come in questo caso, creare malessere a delle comunità, bisogna che queste siano incluse nella discussione su come presentarle. Il concetto di autorità condivisa (shared authority) è fondamentale in quello che facciamo. La prospettiva non può essere unica.

Martina Bagnoli: ma facendo così non si rischia di concentrarsi solo su una parte del contenuto di un’opera d’arte? Uno scrittore italiano, Walter Siti, ha recentemente scritto un piccolo saggio (Contro l’impegno. Riflessioni sul bene in letteratura) in cui si schiera a favore di un’arte avulsa da necessità immanenti di ordine sociale o politico. Secondo l’autore, il contenuto di un’opera d’arte non è solo il messaggio apparente a chi guarda, ma è anche e soprattutto forma, mestiere, tecnica e ciò – dice Siti – ha un valore non solo formale e stilistico ma anche di contenuto. È un contenuto non espresso ma visibile che non è per forza una finestra sul mondo ma piuttosto uno specchio in cui lo spettatore può riflettere sul suo presente, anche se doloroso. Educare al contenuto delle forme dell’arte sarebbe quindi meglio che sanificare cancellandolo, anche perché ciò che riusciamo a capire del contenuto di un’opera oggi, ad esempio l’orrore di fronte a certe forme di violenza, non era per forza quello percepito dal pubblico al momento della sua creazione.

Kaywin Feldman: Sì certo questo è vero, però, come sempre, il diavolo sta nei dettagli. Sappiamo che il pubblico proviene da esperienze di vita diverse, ma tradizionalmente i musei sono stati creati dai bianchi per i bianchi. Questo sta cambiando radicalmente e molto in fretta. L’idea che una grande opera d’arte parli una lingua universale intesa da tutti nella stessa maniera è un’idea dell’élite occidentale bianca. Chi ha la possibilità di riflettersi in quello che vede è meglio attrezzato per affrontare anche l’eredità negativa del proprio passato. Ma non è così per tutti. Di fronte alla stessa opera d’arte, le persone percepiscono cose diverse a partire dal proprio vissuto e hanno quindi un’esperienza spesso divergente. 

Sasha Suda: Non sarebbe bellissimo se potessimo controllare il modo in cui un’opera viene percepita? Fondamentalmente io non sono d’accordo con quanto detto dallo scrittore che citi in quanto l’arte è dinamica. Come è possibile che un’opera possa dire le stesse cose a distanza di trecento anni a persone diverse?

Martina Bagnoli: Siti sostiene che l’arte è per sua natura elitaria perché creata da un numero ristretto di persone per un numero ristretto di persone che la capiscono; per cui, per far parte di quella conversazione bisogna avere gli strumenti per poter capire.

Sasha Suda: Mi pare che l’argomento si possa ribaltare. Per spiegarmi meglio voglio portare due esempi. Recentemente abbiamo fatto due mostre: una su Gauguin (Gauguin Portraits, maggio-settembre 2019) e una su Rembrandt (Rembrandt in Amsterdam: Creativity and Competition, luglio-settembre 2021). Per la mostra di Gauguin abbiamo preso la decisione di presentare le opere dell’artista in maniera completamente avulsa dal contesto attuale del museo che è quello di profonda consapevolezza e sensibilità verso le popolazioni indigene del Canada. Dunque la mostra di Gauguin, pittore che con le popolazioni indigene della Polinesia ha avuto dei rapporti a dir poco problematici, non ha avuto nessun supporto interpretativo. La reazione del pubblico è stata immediata. Molte persone si sono lamentate dicendo che la mancanza di mediazione interpretativa le faceva sentire vulnerabili in presenza di certe opere, altre hanno lamentato la mancanza di informazioni sul ruolo che l’espansione coloniale ha avuto sull’arte di quel periodo e di Gauguin in particolare. La mostra ci è servita per capire che possiamo certamente omaggiare la grandezza di Gauguin in quanto maestro della pittura del Diciannovesimo secolo, celebrare il suo uso dei colori ad esempio, ma proprio perché la sua arte è così grande, essa esercita ancora un’attrazione forte sul pubblico e pertanto stimola molteplici riflessioni sulle questioni che affliggono la contemporaneità, al di là della sua perfezione formale.

Forti di queste conclusioni, per la mostra successiva dedicata a Rembrandt abbiamo agito in maniera diversa. Il grande maestro è stato presentato non solo come il prodotto della cultura artistica di Amsterdam ma anche come il risultato di un progetto coloniale globale. La mia opinione è che questa contestualizzazione in quanto fatto storico sia neutrale. Mettere Rembrandt nel contesto dell’espansione commerciale del colonialismo ci ha permesso di esplorare aspetti inattesi e molto interessanti. Il pubblico ha premiato questa scelta. In molti hanno commentato positivamente la loro esperienza di visita. L’esposizione è stata apprezzata soprattutto dalle famiglie perché ha permesso ai giovani di scoprire Rembrandt e connetterlo con le tematiche che studiano a scuola. Allo stesso tempo l’esposizione ha suscitato delle reazioni avverse. Una piccola minoranza ha espresso rabbia per il nostro voler interferire sull’arte. Ci sono arrivate lettere di protesta in cui ci veniva chiesto perché non lasciavamo l’arte in pace, che il nostro era un museo di arte e non un museo di storia. A me pare strabiliante l’idea che i mondi dell’arte e della storia possano vivere due vite separate. Da sempre i musei vogliono essere partecipi della vita delle persone e partecipare al progresso della vita pubblica e della storia. In fondo i musei sono stati creati per questo. Sperare che i visitatori entrino nel museo e immediatamente sospendano tutto ciò che concerne la loro quotidianità, azzittendo le preoccupazioni del presente per riuscire a cogliere solo il puro mondo delle forme, è chiedere l’impossibile. Proprio perché l’arte è potente essa esercita un’autonomia che supera il nostro controllo. L’arte pone delle domande e chiede che si cerchino le risposte. Ogni qualvolta cerchiamo di abbassare il volume della conversazione che le opere stesse ispirano, perdiamo in partenza perché è l’arte stessa che non ce lo consente.

Martina Bagnoli: Si tratta dunque di negoziare tra aspettative del pubblico e il contesto storico delle opere. Lavoro assai difficile. In che maniera questo lavoro di mediazione è reso più complicato dai social media?

Kaywin Feldman: I social media rendono queste conversazioni molto più difficili, precisamente perché sui canali social si perde la possibilità di negoziare le aree grigie che sono quelle in cui si inseriscono i nostri rapporti tra il passato dell’opera e la nostra contemporaneità. Le reazioni violente, anonime e istintive sono quelle che sui canali social premiano di più; i social media non sono un modo di comunicare che permette di discutere la complessità degli argomenti che le nostre collezioni presentano. Anzi estremizzano senza risolvere.

Sasha Suda: È così. Però non c’è dubbio che più il museo partecipa alle grandi trasformazioni sociali in corso più attrae traffico sulle piattaforme social rendendo questo lavoro di mediazione più difficile.

Martina Bagnoli: In che maniera quindi è possibile trovare lo spazio per costruire quella shared authority di cui si parlava prima? Come si arriva a conoscere le opinioni di chi non è già parte del mondo del museo?

Kaywin Feldman: Il primo passo è quello di ascoltare il personale del museo, soprattutto quelli che sono tipicamente fuori dalle conversazioni sull’arte: il personale di sorveglianza, quello che si occupa della manutenzione. E poi bisogna essere determinati nell’ascoltare i leader di comunità diverse, il pubblico più giovane, persone insomma che necessariamente avranno opinioni diverse e discordanti da quelle che vengono espresse nei consigli di amministrazione e tra i nostri benefattori.

Sasha Suda: Sì, sono convinta anche io che si deve partire dal proprio staff. Dirò di più: che è necessario ascoltare quello che è difficile sentirsi dire. Lo sforzo è quello di andare a cercare opinioni che contrastano con ciò che abbiamo sempre creduto. Bisogna uscire dal museo per cercare conversazioni che portino a confrontarsi su un piano umano e non solo su piani di conoscenza specifica e di expertise professionale.

Martina Bagnoli: Entrambe lavorate per musei pubblici e la vostra politica di ascolto si basa sull’ampliamento del concetto di pubblico. Questi cambiamenti sono stati facili e senza opposizione?

Kaywin Feldman: Certamente il dibattito esiste, perché c’è molta distanza tra le aspettative del pubblico più giovane che come abbiamo detto è multietnico e nativo digitale e la comunità dei donatori e sponsor della National Gallery che sono più anziani e più omogenei.

Sasha Suda: La National Gallery del Canada è per sua natura molto tradizionalista quindi sicuramente questi cambiamenti hanno suscitato molta ansia e rabbia. Ma il museo che dirigo è un museo nazionale e come tale ha il mandato di seguire le evoluzioni del paese quindi in questo senso nuotiamo con la corrente.

Kaywin Feldam è dal 2019 direttrice della National Gallery of Art a Washington e prima donna a capo della prestigiosa istituzione statunitense. Archeologa e storica dell’arte, prima della National Gallery è stata direttrice e presidente del Minneapolis Institute of Art.

Sasha Suda è direttrice della National Gallery del Canada. Prima di approdare a Ottawa, Suda, storica dell’arte di formazione, è stata curatrice e capo di dipartimento all’Art Gallery of Ontario di Toronto.

Martina Bagnoli, direttrice delle Gallerie Estensi di Modena e Ferrara. Di formazione storica dell’arte. Prima di tornare in Italia, Bagnoli è stata curatrice e capo di Dipartimento al Walters Art Museum di Baltimora.

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