Dal 1993 al 2018, ha pensato e condotto una trasmissione di Rai Radio 3: Uomini e profeti. Basta questo a giustificare una conversazione sul “mondo dopo”. Sulla pagina web di Gabriella Caramore, autrice e studiosa (La parola Dio, il suo ultimo saggio uscito da Einaudi nel 2019), alla voce “radio” si possono ascoltare dialoghi e lezioni che spaziano dal “dipingere Dio” al pensiero religioso di Lev Tolstoj, dai concetti di “colpa pena rieducazione” alle radici cristiane dell’Europa. Con lei, donne e uomini laici e di fede che in un tempo confuso animano, quasi instancabili, la ricerca sulla trascendenza e l’umano. 

Allora forse si può partire dal legame tra quelle due dimensioni. In un romanzo di qualche anno fa (Il club degli incorreggibili ottimisti, Salani 2010), Jean Paul Guenassia ambienta la vicenda a Parigi sul finire degli anni Cinquanta e lì, nel retrobottega di un bistrot, il protagonista incrocia un gruppo di profughi dell’est Europa, perseguitati politici, eppure ancora legati all’utopia della rivoluzione possibile. La ragione del paradosso è che loro nella “terra promessa” non cercavano la “terra”, ma la “promessa”. Dopo mezzo secolo dove si è negato diritto di parola all’ideologia, talvolta persino a un pensiero proiettato al di là del semestre, possiamo pensare che esista ancora uno spazio laico, terreno, vorrei dire “politico”, per una “profezia” o siamo prigionieri di un pragmatismo dove i valori si riducono a retorica?

Non so se possa darsi uno spazio “terreno” per parole come “promessa” o “profezia”. Ma forse non ce n’è neppure bisogno. Diceva il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, ucciso dai nazisti per aver complottato contro Hitler, che ciò che in linguaggio biblico viene chiamato “promessa” nel linguaggio della contemporaneità si chiama “senso”. Ecco, mi sembra che quello che possiamo fare è trovare un senso, una direzione, un percorso alla nostra vita, che possibilmente sia condivisibile con la vita degli altri.

Questa vertiginosa pluralità, per molti versi drammatica, che è la caratteristica del tempo in cui viviamo, ci consente però di cogliere una opportunità: quella di una rottura della compattezza dei “valori” dominanti: pragmatismo, retorica, ma si potrebbe anche dire – abusando di una immagine forse troppo scontata – dipendenza dalla comunicazione dei social, influenzabilità del giudizio, carenza di pensiero critico, debolezza di una tensione progettuale. Qua e là, si può trovare lo spazio per aprire delle faglie che contraddicono la pesantezza di questo tempo, ed è su queste che bisogna puntare, su queste occorre agire. Non so, appunto, se si possa parlare di “profezia”. Forse è parola troppo connotata storicamente.

Ma se per “profezia” possiamo intendere il coraggio di osare verità, l’audacia di contraddire i potenti, il rischio personale, e la tensione verso un bene collettivo, allora, sì, qua e là possiamo parlare anche di “profezia”. Solo che nella contemporaneità occorre alla certezza della “promessa” sostituire l’incertezza della “ricerca”.

Qualche anno fa nel ciclo delle lezioni della domenica Massimo Cacciari tracciò la rotta di un’Europa solida nelle radici, cristiana nell’evolvere, animata di miti fondativi dell’Occidente (Amleto, Faust, Don Giovanni) e condannata a vivere “tramontando”. Era l’autunno del 2016. Oggi, anche per effetto della pandemia, quel “tramonto” sembra tendere verso una nuova “alba” con decisioni di ordine finanziario, e di conseguenza politico, che si muovono contromano rispetto alle logiche precedenti. Ora, ripensando all’utopia (o profezia) possiamo immaginare che lo spartiacque di questi mesi ci restituisca quella matrice etica, persino visionaria, che segnò l’impianto delle nazioni vincenti e sconfitte all’indomani della Shoah?

Mi riesce difficile pensarlo. Il “disegno storico” dell’Europa nato nella seconda metà del Novecento andrebbe, per l’appunto, “ridisegnato”. Oggi un nuovo scenario internazionale è in campo, un nuovo intreccio di problemi che rendono la situazione più confusa di quanto potesse apparire intorno alla metà del Novecento, quando ci si illudeva di aver trovato (a costo di molti silenzi – uno per tutti quello sul colonialismo – e di devastanti menzogne – una per tutte i crimini commessi dai vincitori sui vinti) un discrimine netto tra bene e male. Oggi tutto è più mischiato, le scelte sono più complicate. E anche se, positivamente, maggiore è la possibilità di sviluppare un pensiero critico sul mondo, certamente risulta indebolita la percezione di qualcosa su cui poggiare, su cui far leva.

Credo che questo coinvolga il piano della politica, ma credo che coinvolga, ad esempio, anche l’ambito del religioso. In Occidente, per una serie di motivi diversi, è venuta meno la credibilità e la fiducia nella Chiesa, e nelle Chiese, aprendo così la strada a un agnosticismo diffuso. Questo non è necessariamente un male. Anzi, un approccio critico alla storia delle comunità religiose aiuta a capire meglio il presente. E se questo approccio critico ha messo in discussione anche l’immagine di un Dio troppo a misura d’uomo e troppo manipolabile dai poteri religiosi e dai devoti di ogni stagione, ritengo che sia una grande conquista.

Purificare l’idea di Dio, fino a ricondurla a quella essenza di giustizia, libertà, benevolenza, pacificazione che nei secoli è stata troppo rivestita di maschere e di artifici, credo sia un buon modo per parlare del divino nel nostro tempo, saturo di quelle immagini idolatriche che le dottrine volevano indurci a onorare.

La “nostra” Europa è frutto di una pacificazione dopo secoli di odi e conflitti. Ma in cambio di quali sacrifici se raffrontiamo il continente di ora con quello sotto di noi dove l’esplosione demografica e lo sfruttamento di risorse alimentano miseria e ricerca di salvezza? In anni recenti a questo capitolo della storia abbiamo risposto monetizzando il dramma. In Turchia c’è una dittatura, ma noi paghiamo miliardi perché Erdogan trattenga centinaia di migliaia di fuggiaschi siriani. Può essere solo il papa di Roma a guidare la contrarietà a una logica simile? Detto in altri termini: dove termina oggi l’Europa?

È una giusta domanda. Ho l’impressione che in questa fase storica l’Europa “non termini”. Non è più possibile illudersi che esistano destini separati, delimitati da confini, né per gli individui né per le nazioni. Oggi tutto è connesso con tutto, che lo si voglia vedere oppure no. Inoltre, quella d’Europa è una geografia incerta anche sul piano politico e culturale. Se già al suo interno non è sostenuta da valori pienamente condivisi, tanto più risultano sfrangiati, o conflittuali, o indecifrabili i confini con il resto del mondo, con cui inevitabilmente si confronta.

AP

L’idea di Europa frana di fronte al dramma dei profughi, quelli nei campi di concentramento dietro i muri o quelli che muoiono in mare, ma frana anche di fronte allo sfruttamento predatorio delle risorse, al persistere di immani ingiustizie sociali, di un uso sconsiderato delle ricchezze, dell’indifferenza di fronte alle miserie, del silenzio sotto cui occulta azioni moralmente indegne, e della incapacità di trovare una via di giustizia, di misura, di cura del vivente.

Ci sarebbe bisogno di analisi lucide, di assunzioni di responsabilità, di elaborare progetti alternativi.  A dire il vero le analisi ci sono, in molte parti del mondo c’è mobilitazione della società civile, c’è capacità di denuncia, e anche di grande progettazione. Non c’è solo il papa di Roma a esprimere la contrarietà a questa logica spietata. Mancano però i canali per tradurre queste istanze in azioni vaste, plausibili, condivise.

Sul dove termina l’Europa una definizione suggestiva sostiene che non avendo il continente dei confini definiti si può pensare che termini dove trovano fine i valori della sua civiltà. E qui il pensiero corre alla doppia eredità di Atene e Gerusalemme. In quella di Atene ci sono i conflitti sociali e politici. In Gerusalemme religiosità e trascendenza. Racconto suggestivo, ma è ancora valido per generazioni legate a un sapere filtrato da strumenti e linguaggi che negano proprio la complessità? Insomma è compatibile la trascendenza con la rapidità del nostro tempo storico?

Ho l’impressione che le categorie che ci hanno guidato in passato oggi ci stiano strette, ma nella grande Babele in cui viviamo stentiamo a rinvenirne altre più efficaci. Ad esempio, le categorie di “Atene” e “Gerusalemme”, nelle quali a lungo abbiamo ritenuto di rinvenire le matrici dell’eredità europea, oggi ci appaiono troppo rigide, anguste, limitate. Quei due mondi già comprendevano al loro interno una complessità di sfumature e di intersezioni con altre culture che solo ora arriviamo a intuire. A maggior ragione la complessità in cui oggi viviamo ci appare ingovernabile, e di fatto lo è. Ma non abbiamo altra strada che prenderne atto, provare a decifrarla, prendere confidenza con essa, inerpicandoci per sentieri impervi, cercando di individuare obiettivi comuni.  Inoltre, sì, è vero che il nostro tempo storico ci precipita in una fretta che è nemica della complessità e facilmente flirta con la semplificazione. Occorre fare un lungo, paziente lavoro non solo per decrittarne i codici, ma anche per reinventare nuove possibilità, per creare nuovi percorsi.

Tutto ciò è problematico. Richiede libertà e coraggio, responsabilità e una pazienza attiva. Ma è quello che sempre è stato richiesto alle grandi epoche di trasformazione. Anche il linguaggio religioso andrebbe ripensato, riformulato, rimesso in discussione. Ad esempio, quella che chiamiamo “trascendenza”, e alla quale, nelle religioni d’Occidente, è stato dato troppo spesso il volto antropomorfico di un Dio di volta in volta benevolo o punitivo, misericordioso o crudele, compassionevole o indifferente andrebbe oggi ridefinita alla luce di ciò che è più grande di noi e ci sovrasta, di ciò che è inconoscibile, di una grandezza che assomiglia a quella degli universi infiniti che andiamo esplorando e che temiamo di non poter mai raggiungere.

Del resto, sono le Scritture stesse a indicarci questa via, proibendo di fare dell’inconoscibile qualunque immagine che ne deformerebbe la sostanza, e di catturarlo in un nome artificioso che ne sminuirebbe la grandezza. (Questo il senso del secondo e del terzo comandamento). Ma questo contribuirebbe a ridimensionare anche il tronfio e ormai insopportabile antropocentrismo: siamo creature piccole, sperdute in una immensità senza confini, e le nostre minuscole vicende andrebbero guardate con più compassione e più saggezza.

L’11 febbraio del 2013 la “rinuncia”, le dimissioni, di Benedetto XVI. A distanza di anni cosa ha significato il “gesto” di Ratzinger in termini di frattura con un tempo che non poteva contemplare un evento simile? Ma soprattutto se accettiamo per Giovanni Paolo II la descrizione di “evangelizzatore” e per Benedetto XVI quella di “teologo”, possiamo definire Francesco un “profeta”?

Ci sono dei nostalgici che vorrebbero continuare a vedere nella Chiesa e nei suoi rappresentanti delle emanazioni in terra del volere divino. Proprio per questo, il “gesto di Ratzinger” ha significato una cosa molto importante: ha mostrato come la persona del papa non sia affatto quella figura sacrale che per secoli la Chiesa ufficiale ha voluto far credere ai fedeli.

È semplicemente un essere umano, con determinati compiti all’interno della comunità dei fedeli (non a casa papa Francesco ha voluto da subito chiarire che egli è il “vescovo di Roma”, non un “sommo sacerdote” nominato dal cielo), ma è un essere umano, destinato come tutti a errori, decadenza, eventuale incapacità di portare a termine il suo mandato.

LaPresse LaPresse / Fabrizio Corradetti

È stato un bel colpo inferto alla autorità indiscussa della Chiesa e del suo “pontefice”, anche se questo aspetto lo si è voluto passare sotto silenzio, sminuire, mettere tra parentesi. A dire il vero mi sento in imbarazzo nel “definire” il carattere degli ultimi papi. Non sono una conoscitrice delle dinamiche interne alla Chiesa.

Quello che posso dire, da osservatrice, è che questi papi hanno avuto, come è ovvio, le loro luci e le loro ombre. Giovanni Paolo II con la sua forza magnetica si è imposto all’attenzione del mondo, ma è stato molto conservativo all’interno della Chiesa, e il suo progetto di “evangelizzare” l’Europa e il mondo ha contribuito a diffondere l’immagine di una Chiesa come unica detentrice della verità e della morale. Benedetto XVI – ripeto, questa è solo la mia impressione – ha elaborato una teologia certamente ambiziosa, ma non all’altezza delle trasformazioni dei tempi (si ricorderanno i suoi “principi non negoziabili”), impacciato di fronte alla realtà di un mondo in subbuglio.

Papa Bergoglio è quello che, a mio avviso, ha rimesso al centro della predicazione con maggior vigore le parole del Vangelo, destinate a un mondo in sofferenza come quello in cui viviamo. Però rimane impigliato nell’eredità pesante di una Chiesa immobile, talvolta prigioniero di un linguaggio inadeguato alla contemporaneità, nella impossibilità di essere radicale fino in fondo, come forse vorrebbe. Profezia? Forse. Purché non si riconduca questa parola dentro alvei di sacralità, peraltro incompatibili con le Scritture. I profeti erano per lo più degli emarginati dalla società, che si assumevano il compito ingrato di dire una parola di verità.

«La carestia di felicità, dovuta alla povertà delle relazioni, può diventare più disastrosa e disumanizzante della carestia di cibo (…) L’economia ha creduto per lungo tempo di poter fare a meno di entrare nel territorio delle relazioni umane»: sono frasi di Luigino Bruni, economista che non ha mai accettato di rendere la persona subalterna a qualunque altra priorità, compreso il profitto. Del resto che “il fine della politica” sia “la felicità” è concetto di Aristotele. Si può dire che di fronte al tramonto di un’ideologia (quella marxista) la cristianità esprima una religiosità partecipe, consapevole e intenzionale di un moderno anticapitalismo?

Non saprei dire se la felicità sia “il fine ultimo dell’uomo”. La felicità si presenta come un bagliore di luce, l’irruzione nella vita ordinaria della bellezza, della gioia, della pienezza dell’incontro, della creatività. Dubito anche che ci sia un “fine ultimo” della vita umana. Non perché la vita umana sia uno scorrere insensato gonfio di nulla. Rifuggo, per quanto mi riguarda, da ogni formula nichilistica.

Ma un conto è cercare di dare senso alla vita propria e degli altri, cercare di alleviare il dolore, di inserire frammenti di bene, di costruire qualcosa che possa aggiungere benessere (e perché no, anche felicità) al mondo in cui si vive; altro è pensare che la vita sia destinata a un fine prestabilito. Per quanto riguarda la tradizione cristiana, che ha tenuto viva, certamente, nei secoli, una istanza di giustizia, di altruismo, di misericordia (letteralmente: “essere con il cuore dalla parte dei miseri”), occorre anche ricordare quanto quella stessa tradizione sia stata sovente dalla parte dei potenti, degli oppressori, dei violenti. Né si può dimenticare come l’anticapitalismo della Chiesa sia coinciso spesso con il suo feroce antimodernismo, che ha espulso dal suo corpo i suoi spiriti migliori.

Ma a questo punto, come uscirne? Certo, non si tratta di sostituire una “ideologia” a un’altra. E se il cristianesimo si prefiggesse di esprimere un “moderno anticapitalismo” temo proprio che diventerebbe a sua volta un processo ideologico. Si tratta, forse, di estrarre dalla tradizione cristiana, come da altre tradizioni, religiose o no, quei nuclei di parole, di gesti, di narrazioni, di pratiche che possano costituire un denominatore comune per accrescere la vivibilità sulla terra. E proporli, confrontarli, sottoporli a ragione, prevederne la trasformazione, con il coraggio e l’umiltà dei cercatori.

Riprendo da un bel saggio di Giacomo Costa e Paolo Foglizzo (Il lavoro è dignità. Le parole di Papa Francesco, Ediesse 2018): “Papa Francesco non ha paura di misurarsi con il conflitto sociale; anzi, invita ad assumerlo. Per questo, quando parla di impresa, investimenti e finanza, non usa giri di parole, anche quando deve andare contro il pensiero dominante”. Il carattere innovativo della sua proposta deriva dall’inserimento della preoccupazione per il lavoro all’interno di un paradigma che coglie le connessioni con tutti gli aspetti dell’unica crisi socio-ambientale diagnosticata dalla Laudato sì. È giusto dire che sta in questa chiave la possibilità di Bergoglio di trasformare la missione secolare della Chiesa?

Alla fine, penso si possa dire questo. Così come la civiltà europea non può attardarsi su modelli passati, ma è obbligata a guardare a una nuova idea di convivenza, così anche il cristianesimo dovrebbe, per poter sopravvivere, uscire dal torpore in cui sembra avvolto e osare guardare a un rinnovamento del suo linguaggio, delle sue pratiche, delle sue speranze.

Questo non significa neppure lontanamente un oblio delle proprie “radici”. Anzi, soprattutto guardando alle radici della sua storia, si accorgerebbe che la sua realtà non è fatta solo di papi, istituzioni, dottrine sociali, fondazioni, documenti, organizzazioni, e così via. Ci sono ben altre realtà al suo interno. Ma poiché di fatto viviamo in un’epoca che –  come afferma lo stesso Bergoglio, e come affermava lucidamente il cardinal Martini – ha decretato la fine della cristianità, poiché la fede non costituisce più il presupposto della vita comunitaria, se si vuole salvare qualcosa del cristianesimo occorre gettarlo fuori dai luoghi chiusi, dai tabernacoli come dalle dottrine, e farlo rivivere come piccolo seme di cose buone gettato in mezzo alle sterpaglie del mondo.

Questo già succede, in molte parti del mondo, in piccole comunità sia laiche che religiose, in famiglie, monasteri, nei luoghi del dolore e in quelli della solidarietà. La Chiesa, lo ha detto anche papa Bergoglio, dovrebbe farsi minorità, abbandonare le vesti sontuose e imperiali del magistero, mutare il vocabolario dottrinale che sa più farsi ascoltare dal mondo, e tenere acceso il tremulo fuoco di un “piccolo bene”, come diceva Vasilij Grossman, per mostrare che un altro mondo è possibile. Il resto spetta alla polis. Alla sua responsabilità. Al suo sentimento di giustizia, di libertà, di uguaglianza, di fraternità.

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