Il writer che ha lasciato, senza mai chiedere il permesso, il suo segno in ogni angolo di Roma, mettendo sotto scacco le amministrazioni di ogni colore, firma “The art of disobedience”. Un documentario che ripercorre la sua monumentale produzione e che lascia aperto un interrogativo: quali segni e linguaggi hanno il diritto di cittadinanza e, quindi, di esistenza, in uno spazio urbano condiviso?
«Disobbedire non significa solo trasgredire, ma liberarsi di un ordine che limita la nostra capacità di pensare». Disobbedire è un’arte e il writing è l’arte della disobbedienza, elogio dell’illegalità. Almeno la pensa così Geco, per anni il writer più ricercato di Roma, capace di mettere in scacco le amministrazioni di ogni colore, mentre la sua firma, la sua tag, compariva ovunque, dal centro all’angolo più sperduto del raccordo anulare e oltre. The art of disobedience è il titolo del documentario firmato e diretto da Geco con cui il writer ripercorre la sua opera - il 4, 5 e 6 maggio al cinema Aquila di Roma, dove approda dopo un mini tour europeo e l’anteprima alla Casa del Cinema, e prima di essere proiettato a Milano, Bologna, Firenze, Perugia, Brescia e altre città italiane.
«Ovunque tu vai, sai che da qualche parte ci sarà il Geco». Si apre così, con le immagini che indulgono sul mercato di via Magna Grecia dove c’è una delle sue scritte più famose: «Geco ti mette le ali». Immagini che da Roma arrivano a Lisbona, dove fa il giro dei tg come il writer che «mette in ridicolo» la polizia, per poi vederlo correre, veloce e di nuovo imprendibile, in bilico sui cornicioni, arrampicato sui muri di Atene. Ottantadue minuti in cui Geco porta lo spettatore insieme a lui, lo costringe a seguire le sue incursioni, facendolo arrampicare fino all’estremo della torre Piezometrica ai margini del raccordo anulare. E da cui è impossibile non uscire senza provare un senso di vertigine.
Geco ha invaso muri, palazzi, cartelli stradali, serrande, tombini, con una costanza portata fino all’ossessività, diventando un elemento riconoscibile del paesaggio urbano. Una ripetizione costante che ha trasformato quattro, semplici, lettere - apparentemente senza nessun significato - in un simbolo di resistenza urbana. Un modo per reclamare e riprendersi lo spazio. The art of disobedience non è soltanto il racconto delle opere di Geco, ma un’indagine collettiva sul writing romano.
Di lui non si scorge mai il volto e non si sente mai la voce, la narrazione è affidata agli altri protagonisti che raccontano l’evoluzione del fenomeno. Nel documentario ci sono i primissimi protagonisti del writing romano. Quelli nati nella scena hip hop, come Breezy G delle 00199, prima crew di grafitare che ha condiviso la strada con gli Assalti Frontali. E come Naps, legato a Crash Kid e a quei primi b-boy che si ritrovavano in quel piazzale Flaminio, dove sono nati i primi gruppi rap romani come i Colle der Fomento e i Cor Veleno.
«L’arte è soprattutto condivisione, la necessità di fare graffiti illegalmente è come una febbre, io la so descrivere solo così», dice Naps dopo aver visto per la prima volta il documentario. Con loro altri writer old school come Bol, Tuff - «Non puoi dividere i graffiti dall’illegalità. La ribellione può essere solo illegale» -, Syla e della scena attuale come Cros e Domiziana Febbi. Con loro anche Valerio Mattioli, giornalista ed editore con Nero, il critico d’arte Valerio Bindi.
La storia di Geco sale alla ribalta delle cronache nel 2020 quando viene identificato e denunciato dalla Polizia Locale di Roma Capitale. Una notizia data dall’allora sindaca Virginia Raggi che lo ha trattato alla stregua di un pericoloso criminale. Attirando su di sé critiche e un selvaggio mail bombing. «Geco ha riaperto un dibattito vecchio come il mondo, che cos’è l’arte?», dice la giornalista Maria Egizia Fiaschetti nel documentario.
Ma The art of disobedience apre anche altri interrogativi. Chiusi nel cassetto dei ricordi i tempi in cui il centro del dibattito era: la street art può avere il passaporto per essere considerata “arte” ed entrare anche in musei e gallerie, ora è parte integrante dei progetti di “riqualificazione”.
Perché, quindi, c’è ancora chi sceglie di farlo senza chiedere il permesso e assumendosi anche tutti i rischi dell’illegalità? Ma ce n’è anche un’altra, forse ancora più attuale: chi ha il diritto di decidere cosa è bello, quali segni e linguaggi hanno il diritto di cittadinanza e, quindi, di esistenza, in uno spazio urbano condiviso? E sono proprio le continue incursioni di Geco che, sfuggendo al controllo e sfidando apertamente il concetto di decoro, mettendo in crisi l’ordine visivo di una città sempre più vetrina, ad aprirla.
Perché scegliendo l’anonimato, l’illegalità, di essere sempre e comunque al di fuori delle leggi del mercato, crea un’estetica della disobbedienza che continua a far discutere chi la interpreta come vandalismo e chi come un segno di rottura necessario.
«Lui sta sempre troppo in alto, dove la gente non guarda più» dice Bindi. «Pensiamo di essere intossicati dall’informazione, ma sono i nostri occhi a essere intossicati, perché ovunque guardiamo c’è qualcosa di scritto. I writer, il bombing restituiscono la libertà del nostro sguardo. Ci serve una città piena di questi segni, l’abbattimento del decoro, la decostruzione del potere. Per pulire gli occhi bisogna guardare in alto». E Geco fa esattamente questo, ci costringe a guardare in alto.
Proprio come fa Blu, considerato dal Guardian come uno dei dieci, migliori, street artist al mondo, famoso per i suoi murales immensi, nati come atti di critica sociale e politica. Il suo volto e la sua identità non sono noti ed è sempre rimasto esterno a ogni logica economica e di mercato.
Una scelta che lo ha portato anche a cancellare uno dei suoi lavori prima che venisse “staccato” dai muri del centro sociale Xm24 di Bologna per essere inserito in una mostra sulla street art ospitata a Palazzo Pepoli. A dimostrazione, come dice sempre Bindi, che non è il «valore di consumo a definire l’arte», ma la relazione tra l’opera e chi la guarda. E che, forse, come ha sottolineato Naps a margine della proiezione, «è riduttivo considerare arte i graffiti, i graffiti sono rivoluzione».
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