La plastica nera o di un grigio molto scuro, mi informa la radio pubblica del Connecticut, non si ricicla. Anche quando magari presenta, in rilievo, quel simbolo triangolare con le tre frecce: è un inganno. A causa della scarsa sensibilità dei pigmenti neri alle radiazioni prossime allo spettro dell’infrarosso, i rifiuti composti da polimeri di cupe tonalità finiscono per essere scambiati, dalle macchine ottiche, per alluminio e cartone, contaminandone il riciclo negli impianti di smistamento. E anche quando raggiungono le altre, più vivaci plastiche colorate lungo il giusto loro flusso, la composizione chimica che li fa neri tende in molti casi a liberare additivi nefasti, che rendono preferibile destinare quegli abbandonati oggetti atri, antracite e canna-di-fucile direttamente alla discarica, o all’inceneritore.

Preso dallo sgomento per quest’ennesima minaccia ecologica che ignoravo, spengo la radio e perlustro l’appartamento in cerca delle cose che ho comprato senza immaginare quanto accelerassero l’incombente apocalisse climatica. Trovo le penne nere ovviamente, le suole di certe scarpe, e quelle cucchiarelle da poco cui comunque preferisco il legno. Trovo molte cose tecnologiche: la PlayStation4, i telecomandi, i caricatori, le tastiere e le cornici degli schermi, nonché innumerevoli cavi – connessi o aggrovigliati tra loro nei cassetti, come aspidi in letargo. Ma gli oggetti di plastica nera che consumo a ritmo più rapido sono senz’altro in bagno, affollati sul ripiano della doccia. Si tratta dei prodotti (per uomo) che adopero per lavarmi.

Chi ha paura della doccia?

Lungo gli scaffali dei supermercati la zona dei prodotti da bagno per maschi si riconosce subito, perché appunto tende al nero. A dire la verità, almeno per quanto riguarda i prodotti da doccia, quella da maschi è l’unica zona esplicitamente connotata: non vedo mai bagnoschiuma, spugne o saponi con su scritto “for women”. Ci sono i flaconi bianchi, o di vari colori chiari, che vanno bene per chiunque si lavi, e poi ci sono quelli nerastri che, a detta di chi li produce, sono pensati per gli uomini. Ma cosa ha di speciale la maschilità sotto la doccia?

Capisco bene il motivo per cui certe cose tradizionalmente da femmina, come il fondotinta o la crema antirughe, siano proposti ai maschi in confezioni aggressive, da guerrieri, ora che il mercato ha capito che può contarli tra i potenziali acquirenti: il prodotto è lo stesso, ma per venderlo anche all’altra metà della popolazione bisogna sdoganarne l’immagine dopo decenni di sessualizzazioni.

I divertimenti del trucco e della tinta, le gioie dell’idratazione e della skincare sono eccessi terrificanti quando uno cresce temendo che basti un bacio, una lacrima, una maglietta rosa o un grido troppo acuto a smascherarlo: a mutarlo in femminuccia, mammoletta, frocio. Per renderli ammissibili bisogna travestirli, farli muscolari e privi di fronzoli, ridurli al grado zero dei font senza grazie, scriverci sopra che sono senz’altro “for men” e tingerli di scuro. Ma, quand’anche si capisse il tabù del farsi belli, perché ai maschi dovrebbe far paura insaponarsi? Cosa c’è di poco virile nella doccia?

Paranoie del patriarcato

È pur vero che una doccia fredda è l’antidoto prescritto alle esuberanze del desiderio maschile, la nemica delle erezioni che non possono o non devono trovare soddisfazione. È vero anche che l’uomo, secondo lo stereotipo, «ha da puzzà», e che tendiamo a immaginare come specificamente maschile l’afrore che in fondo ogni corpo sudato, se non lo si deterge, emette.

Ci sono odori artificiali, estranei alla fisiologia umana, che associamo al maschile e al femminile, ma quelli spontanei che la doccia è deputata quotidianamente a lavar via sono sintomi di virilità. Pierino Porcospino, nell’inquietante immaginazione di Heinrich Hoffmann, è maschio, come maschi furono Amou Haji e Dirty Dick, l’eremita e il mercante che rifiutarono per decenni di lavarsi rispettivamente nella Persia dello scorso mezzo secolo e nella Londra del Diciottesimo, incuriosendo la cronaca internazionale.

La doccia peraltro, oltre che un rituale igienico, è uno spazio; un luogo anche d’aggregazione, che probabilmente nacque promiscuo e che ancora lo è laddove ci si separa tassativamente per genere: negli spogliatoi, nelle saune, nelle prigioni. Uno scivoloso luogo di pericoli, in cui si entra senza difese. È nella doccia che, ci ragguagliano le paranoie omofobe del patriarcato, non ci si deve chinare a raccogliere la proverbiale saponetta.

Se nella vasca da bagno, privata e solitaria, trovavano una dignitosa morte, degna di pitture classiche, eroi stoici come Seneca e Jean-Paul Marat, nella doccia hanno luogo le più infauste scene dei film di Brian De Palma. «Ho ammazzato i miei genitori perché usavano un bagnoschiuma assurdo», recita un memorabile incipit di Aldo Nove, epitome della letteratura cannibale. È nella doccia che il killer di Psycho si avventa su Janet Leigh, che il clown di Stephen King terrorizza il balbuziente Eddie: mostri maschili che in doccia vanno non per lavarsi ma per predare donne e bambini. Ma è sufficiente questo immaginario un po’ casuale a giustificare la necessità di maschilizzare una cosa che usano tutti, almeno una volta al giorno? A inondare di plastiche irriciclabili le discariche, perché sia chiaro (a chi poi?) che farsi la doccia è una cosa da maschi?

Coloriamo i bagnoschiuma

A dire la verità è forse la doccia, in effetti, ad avermi tenuto lontano dagli sport di squadra. A farmi dunque però, paradossalmente, meno tipicamente maschio. Il mio pudore di adolescente mi rendeva irricevibile la prospettiva di trascorrere del tempo nudo coi compagni, di esibire ogni angolo del mio corpo ai miei pari dopo ciascun allenamento, di lavarmi in compagnia. Ero di quelli che, in piscina, si facevano rapidi la doccia senza togliersi il costume.

È forse quell’antica timidezza, composta in parti uguali d’insicurezza e di diffidenza nei confronti dell’intimità virile, ad avermi portato oggi a preferire, senza rendermene conto, quei ridicoli saponi “da maschio” accumulatisi in bagno nelle loro inquinanti confezioni di plastica nera che ora non so dove buttare. Chissà del resto che, nelle intenzioni di chi li ha concepiti, quei tetri recipienti non fossero destinati, invece che a me, alle madri, alle compagne e alle mogli di maschi che si suppone sia loro compito rassicurare: cui devono assegnare e confermare una maschilità aerea e flebile come un odore acre, da palestra, che rischia di venir via con un colpo di spugna. Maschi che, come me, declinano l’intimità della doccia a un singolare assoluto: che nella doccia cantano e pensano tra sé e sé – commettono, al limite, atti impuri.

Come dicevo più sopra però, è verosimile che in antichità le docce fossero soprattutto pubbliche: un luogo in cui detergersi volentieri davanti a tutti i membri del proprio genere, come ancora si usa nei bagni comunitari di alcune culture orientali – ce lo mostrano anche i cartoni animati giapponesi. Mi sorprendo a sentirmi puritano, nel mio atavico pudore di docciante solitario. E rifletto sul fatto che forse quei flaconi neri, così inattaccabili nella loro esplicita maschilità, servono invece proprio a chi si fa la doccia in pubblico: sono per la borsa della palestra, per la sacca del bagnante dell’antica Roma o della Tokyo del futuro che si scorge sfogliando al contrario i manga in fumetteria. Basterebbe forse farli blu, o bordeaux, o di un sobrio verde per renderli riconoscibili alle macchine del riciclaggio, e pagare pegno ai complessi dell’inconscio maschile per usarli come scudo, come coperta di Linus, come talismano rassicurante nell’addentrarsi (senza istinti omicidi à la Hitchcock né paranoie da galera o da spogliatoio) in una doccia condivisa.

Il contrario della doccia marinara, quella in cui ci si insapona senz’acqua per risparmiare risorse su navi e sottomarini, si dice in gergo “doccia hollywoodiana”, alludendo alle prolungate abluzioni in cui si esibiscono i corpi perfetti degli attori. Vederne più spesso di veri ci ricorderebbe che i corpi dei maschi si manifestano in tante forme, spesso per nulla muscolari e cesellate, e forse esorcizzerebbe certe insicurezze di cui sopra. Doppio bonus per l’ambiente poi: meno plastica nera e meno consumo d’acqua.

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