La poesia non si capisce: è tronfia, oracolare, criptica. Quando si capisce è melensa, piena di pathos e di retorica. E poi non vende, e se non vende vuol dire che non piace, e se non piace perché scriverne. Sono luoghi comuni che al solito hanno un fondo di verità.

La poesia non è mai piaciuta granché nemmeno alla sottoscritta, che ha sempre letto più narrativa e romanzi, dall’età scolare. Dall’età scolare fino agli anni dell’università, quando un’amica di corso andava a “sentire i poeti”. Sentire in che senso? Sentirli leggere, testi propri o altrui, a volte con musica, a volte senza. Andammo finanche a un poetry slam: anzi, partecipammo, io e quest’amica.

Lì vidi per la prima volta in vita mia un quattro su una lavagna (è così che funziona: vota il pubblico in sala, a caso). Mi fischiarono, già al primo verso della poesia, che faceva: «La signoria sul corpo della vita è sola dilazione». Il testo proseguiva con una citazione dal Primo amore, film di cui oggi ricordo solo la scena che avevo messo in versi: «una donna e un uomo al ristorante/ lei verdi foglie lui funghi prataioli».

Tutto da rifare quando conobbi (prima sulla pagina e poi nella real life romana) Elio Pagliarani e Nanni Balestrini: le loro poesie parlavano di dati concreti, di aspetti della realtà economica e sociale ed erano scritte in modo assai diverso da quello tradizionale: non andavano a capo di continuo come Montale e ancora di più Ungaretti, i versi di Pagliarani erano talmente fuori misura che gli editori presero a stamparlo con orientamento orizzontale. E così Sanguineti, che necessitava delle classiche quadre a marcare la fine del verso, quando questo sorpassa la riga. Ecco, pensai, questa è la poesia che mi piace.

Una poesia che diceva, tra l’altro: «Oggi il mio stile è non avere stile» (così in Postkarten). L’idea di Balestrini era ancora più radicale: smetterla di scrivere versi propri (Eco lo definì l’unico poeta del Novecento a non aver scritto di suo pugno manco un verso) e ricombinare aspetti, pezzi, frammenti di realtà in un collage. Perché la vita, diceva, è fatta di pezzi, di aggregati casuali, mica di storie coerenti, che iniziano, proseguono e finiscono. Questa frase ha segnato la mia evoluzione nella scrittura: ho cominciato a scrivere poesia così, combinando pezzi di realtà.

Il trauma dell’orfanezza

A un certo punto questa realtà ha incrociato il trauma, nella fattispecie una relativamente precoce e integrale orfanità (o orfanezza, come pare sia più proprio dire, quando la condizione non è contingente alla perdita, ma uno stato permanente di assenza, e di inevitabile nostalgia). Ho scritto poesie sulla morte di mia madre, e poi su quella di mio padre (tragico bis).

Ma quel tipo di poesia la sentivo come usurpata: era qualcosa di non mio, perché la morte che raccontiamo, come dice Benjamin nel saggio sul narratore, è per forza quella di qualcun altro. Ho avuto sempre più bisogno di uscire fuori, di sentire non più la mia voce risuonare come una litania, ma quella degli altri, più varia, diversificata. E qui ho avuto la seconda folgorazione: l’eavesdropping.

Una tecnica che da noi si usa poco, ma che in area anglofona è molto praticata, dagli artisti, soprattutto, tra cui Jenny Holzer: le frasi di tutti, ovvero del parlato comune, diventano plasticamente o letteralmente l’opera. All’inizio annotavo sui quadernetti o sui biglietti dell’autobus: la prima frase pseudopoetica fu «la verità è che i quattro salti in padella non so’ cattivi».

La usai come incipit di un libro che si chiamava Inattuali, i cui testi andavano ancora a capo, ma lavoravano attorno alle parole, ai discorsi sentiti per strada. Il miglior antidoto contro il ripiegamento intimista, che è una delle ragioni principali per cui la poesia è così lontana dal gradimento comune: perché dovrebbe appassionarmi, la disgrazia tua? Le intitolai così perché erano 13 come quelle che aveva progettato Nietzsche e perché provavano a immortalare pezzi di vita contemporanea. Un giorno sarebbero diventate forzatamente “inattuali”, dal momento che davano conto di una situazione concreta, empiricamente connotata.

Le due anime

Avevano una data di scadenza, come i quattro salti in padella. Ho giocato d’antifrasi anche nel mio nuovo libro, La distinzione, Giulio Perrone editore, dove sono entrate tutt’e due le anime, quella confessional delle prime sfighe familiari, e quella più sperimentale (e per certi versi pop) delle voci degli altri. Ci sono le frasi di tutti, quelle che orecchio non tanto più nei viaggi in treno o nei tragitti in metro, ma che prendo dai social, dai post. «Oggi sono cinquecento anni che è morto il mio amico Montezuma», l’ho letta sulla pagina di Matteo Trevisani, uno scrittore misteriosofico.

«È morto Giorello, lo incontravo ogni tanto al bancomat», da un altro contatto Facebook. Ma nel libro sono frasi anonime, pseudoaforismi staccati dal flusso della comunicazione virtuale, che provano a restituire metonimicamente il nostro presente. La distinzione è una citazione da Bourdieu che però ne rovescia l’assunto: il linguaggio non è uno strumento di potere che ci pone al di fuori della mischia, ma ciò che invece ci affratella, ad esempio nelle situazioni emergenziali, quelle in cui ci troviamo improvvisamente inermi, uguali agli altri («il tu democratico degli ospedali»), vestiti allo stesso modo (ovvero svestiti, in pigiama) e deprivati della nostra abituale libertà d’azione.

L’ospedale stavolta non è il luogo in cui andavo a trovare i genitori malati ma uno spazio sonoro di cui ho fatto esperienza diretta: vedrà, mi disse un giorno il primario, questa esperienza le servirà. Non so se sia stato un buon profeta: forse avrei fatto a meno dell’esperienza, se la penso in funzione di un libro che non avrà lettori, o ben pochi. Se invece non la penso come poesia-che-non-si-capisce, ma come collage di vite che non sono la mia e che però vanno insieme alla mia, non so quanto possa avvicinare i lettori, ma di sicuro restituisce valore, o necessità, o un assillo che ha solo questa forma così bistrattata, nella scala delle attività umane. Dire le cose come stanno, e, come diceva il poeta-operaio Luigi Di Ruscio, senza andare per le lunghe, più in fretta che si può.

Inattualissime

Ho girato tantissimo il Dodecaneso.

Ho scritto un libro a Patmos, fino a Rodi. Mi piacciono

le Sporadi.

Rodi è incredibile

La smetti di googlare malattie?

Quando vediamo House of cards me le ritrovo tutte nel banner

Che poi se uno si vuole suicidare

a tutto pensa

fuorché ad andarsene a vedere i posti più belli di Tropea.

Passo molto tempo a scegliere lo shampoo al supermercato, me li guardo tutti, ormai conosco le caratteristiche di ogni marca, di ogni flacone; è una passione, un modo per capire elettori cinquestelle, no-vax, giustizialisti, telespettatori di rete 4. Essendo io calvo.

È morto Giorello, lo incontravo ogni tanto al bancomat

Histoire d’H

C’è questa storia che sono pallida. Lo sono da sempre, ma è questo a far scattare l’allarme. Non il rantolo, non l’aria che si blocca in petto. È che non sono color Briatore. La glucosata scorre, la vicina chiede se dovranno operare. Dice no, d’istinto, ma che ne sa. Di notte c’è un via via di tutti, passano di continuo tranne quando li chiami, il catetere venoso si riempie di sangue. Sono tutti più vecchi e più rotti, quello tra poco muore. Sì ma io? Dire non respiro è il paradosso del mentitore. Vada a casa, vedrà che passa.

Indicando le altre pazienti, aveva detto che quelle due passavano il tempo a dormire, con lei invece ce potevi parla’. Una donna dall’aspetto vecchina, capelli grigi raccolti a coda. Dopo un po’ in effetti cominciò a parlare, discorsi che parevano solo un po’ sconnessi, di lei che una volta faceva la sarta, e che poi ebbe una figlia, e questa figlia però non veniva mai a trovarla così lei pensava che si fosse ammalata, questa sua figlia che non veniva mai a trovarla (ma no, è che non si può venire in H, per via del covid, ci’)

Le infermiere si avvicendavano come nel casting delle veline. Le sente parlare del Circeo o di Santa Marinella: altri mondi in cui nessuno si aspettava di incontrarla, perché è passata dalla parte degli stesi. E no, non le aveva fatto bene, rileggere Mann


La distinzione (Perrone 2023, pp. 200, euro 20) è l’ultimo libro di Gilda Policastro

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