Non ho mai intervistato nessuno e lei non è mai stata intervistata. «Sarà un disastro», concordiamo io e Giorgia Carofiglio, all’inizio del nostro collegamento su Zoom.

Giorgia mi risponde dalla sua camera a Bari, alle spalle un poster di Colazione da Tiffany. Dietro di me c’è la foto di un’altra Hepburn, Katharine, e penso che sia una coincidenza divertente, che magari dice qualcosa delle nostre personalità. Subito dopo siamo però costrette a prendere atto di due grosse incongruenze. Sul suo poster pende una ghirlanda natalizia fuori stagione, accanto alla mia Katharine una stampa con la faccia di Karl Marx (a Milano, in area C, nel 2021), il che più che delle nostre divergenze forse ci dice qualcosa su un tratto condiviso: siamo fuori tempo massimo? O apprezziamo semplicemente i signori con la barba bianca?

Il côté anacronistico non è l’unico elemento in comune. Abbiamo quasi la stessa età (lei è del ’95) ed entrambe passiamo un sacco di tempo a parlare con i nostri padri. Solo che io e il mio siamo quasi sempre d’accordo su tutto e nessuno vorrebbe ascoltare le nostre conversazioni.

Lei col suo, lo scrittore Gianrico Carofiglio, ci ha fatto un podcast che si chiama Coffee for two (da domani sul sito di Domani) ed è basato sul confronto a volte inevitabile tra genitori e figli.

Com’è nata l’idea di Coffee for two?
Da un litigio coi miei, una sera a cena. Stavamo parlando di cambiamento climatico, sono finita a urlargli contro. Il discorso fondamentale era che a quella generazione non importa granché, perché alla fine dei conti non è un problema loro.

L’idea quindi è nata perché mi sono resa conto che io vivo con questa angoscia, certa che prima o poi morirò travolta da uno tsunami, mentre loro sono sereni. Sono due punti di vista completamente diversi sulla stessa realtà, ma il mondo in cui viviamo è lo stesso.

In origine volevo farci un libro, Il cambiamento climatico spiegato ai miei genitori, ma in realtà non lo avrei mai scritto, non mi sento abbastanza competente per fare una cosa del genere. Poi ho pensato che registrare certe conversazioni sarebbe stato più interessante, avrebbe reso meglio questo conflitto.

Per questo avete scelto di farne un podcast?
Sì, ci piaceva che ci fosse la dinamica genitore-figlio “in presa diretta”, che in altre forme si sarebbe persa e volevamo anche ricreare il clima di una conversazione a tavola, così come era nato lo spunto iniziale. La tavola è il luogo catartico per eccellenza in Italia. L’idea era di riprendere questa dimensione domestica, del caffè insieme. Anche il titolo è un richiamo a questo.

Scusa se te lo dico, ma tuo padre mi sembra un baluardo di civiltà nel dibattito pubblico e televisivo. È così difficile andarci d’accordo?
È questa secondo me la cosa interessante. Siamo dalla stessa parte politica, condividiamo gli stessi valori. Eppure ci stupiamo costantemente di avere lenti così diverse sul mondo. Se fosse stato un nazista dell’Illinois questo mi avrebbe stupito di meno, trovo più interessante comprendere le divergenze tra due persone che condividono un terreno comune.

Sembra anche uno con cui non è facile litigare, tantomeno uscirne vittoriosi.
Diciamo che non è semplice far valere il proprio punto di vista con lui, è sempre stato così a casa. Io sono piuttosto emotiva, e lui riporta sempre tutto sul piano logico. In questo progetto insieme avevo paura solo di questo, di venire sopraffatta dalla sua dialettica.

L’unica lezione di guida che ho fatto con mio padre credo sia il motivo per cui non ho mai preso la patente. Penso che piuttosto che lavorare con i miei genitori preferirei chiedere l’elemosina per le strade.
Ero più preoccupata sul piano personale del rapporto, non ero sicura che saremmo stati capaci di essere civili l’uno con l’altra. Invece ci siamo aiutati a vicenda, ci siamo trovati. È andata molto meglio di quanto mi aspettassi. La mia psicologa me l’aveva detto che sarebbe stata una buona occasione.

Come avete organizzato gli argomenti su cui confrontarvi?
Ci sono diversi temi che mi stanno a cuore e su cui magari non abbiamo posizioni drasticamente diverse, ma su cui ci sono spesso delle incomprensioni. Alcuni li ho proposti io, altri lui.

Ci sono argomenti off limits? Qualcosa di cui proprio non potete parlare?
Direi di no. Era nell’aria persino una puntata sul sesso, ma l’idea mi mette parecchio a disagio. Sono troppo pudica, ma non è detto che in futuro non la riusciamo a fare. Sarebbe abbastanza comica. Come quando guardi un film con i tuoi, parte una scena di sesso, e tutti si affrettano a controllare il cellulare o a fare una battuta inopportuna.

Su quale tema siete più inconciliabili?
Più che un tema, è una visione generale delle cose. La nostra generazione, secondo me giustamente, è una generazione di pessimisti. Sul futuro, sul lavoro, sulle relazioni, su tutto. Quello che mi ha sempre fatto innervosire della generazione dei nostri genitori è un ottimismo che a volte non ha alcun fondamento nella realtà. È un ottimismo senza soluzione, è solo lì. A loro è andata bene, diciamolo. Credo facciano fatica a comprendere come i loro figli, che magari ritengono intelligenti, persone capaci di cavarsela, non possano concretamente avere le stesse cose che hanno avuto loro.

Io a volte ho dei dubbi sulla legittimità delle prese di posizione della nostra generazione, trovo che ci sia un po’ di arroganza nel voler spiegare la vita a chi è in giro da più tempo di noi.
Secondo me non è un fatto di arroganza, siamo una generazione che ha bisogno di approvazione. Abbiamo questo desiderio di spiegarci, che la nostra posizione venga accettata. Non vogliamo uscire con i forconi, ci basterebbe essere ascoltati e possibilmente capiti. La verità è che non abbiamo lo stesso potere che poteva avere la generazione del boom economico e abbiamo coscienza, ma non in maniera esplicita, di questo fatto. Le posizioni di potere, ma anche solo di visibilità culturalmente rilevante in cui la nostra voce possa essere ascoltata, sono ancora poco accessibili. Per essere ascoltati dobbiamo essere compresi da chi a queste posizioni ha accesso.

Ma siamo anche molto più in sintonia con i nostri genitori di quanto qualsiasi generazione precedente sia stata con i suoi.
Ci siamo presi lo spazio nel privato, è vero. Il rapporto che abbiamo con i nostri genitori è più facile di quello che i nostri genitori avevano con i loro, però non c’è un riscontro nel mondo pubblico. Io ho 26 anni, non sopporto più di essere chiamata giovane. Sono giovane, certo, ma trovo che ci sia una radice paternalistica nella definizione. Definirci “i giovani” ci toglie l’autorità di dire cose che hanno senso. La posizione di una persona giovane è sempre la posizione di qualcuno che non è ancora adulto, a cui manca qualcosa. Mentre noi siamo adulti. Io vorrei essere ascoltata da adulta.

Hai mai detto “ok boomer” a tuo padre?
Segretamente era il titolo che avrei voluto dare al podcast. Non gliel’ho mai detto perché è così boomer che gli avrei dovuto spiegare cosa significa.

Nel primo episodio del podcast affrontate alcune questioni di genere. Com’è andata?
È andata bene, ma ci siamo tenuti su temi non eccessivamente controversi. Ne abbiamo discusso spesso anche a casa. Per quanto mi riguarda il discorso di genere è più difficile di quello generazionale. C’è un abisso di esperienza quotidiana tra uomini e donne che non è colmabile. Lo si può comunicare, ma mai fino in fondo. Certo è una discrepanza che contiene anche quella generazionale. In particolare noi donne di questa generazione abbiamo un lessico maggiore, che ci permette di vedere alcune questioni con più chiarezza. Le bolle che frequentiamo sui social, ma anche i media che consumiamo noi, ne parlano più di quelli tradizionali. C’era anche questo pensiero dietro al podcast: il punto di vista diverso viene da esperienze di vita diverse, ma viene anche dal fatto che siamo esposti a media molto diversi. Così cerchiamo di unire le bolle.

Hai studiato a Roma, a Copenhagen e a Londra. Hai trovato molte differenze nell’approccio a certi temi e nel livello del dibattito pubblico?
Assolutamente. Soprattutto sull’uguaglianza di genere in Inghilterra e in Danimarca si respira un’aria diversa, che non saprei neanche spiegare. Sono tornata a Roma ancora più insofferente del modo in cui vengo trattata in alcuni contesti. Che viene già dall’essere giovane, ancora di più dall’essere donna. Il bisogno di parlarne in questo podcast viene anche da questo. Parità di genere, giustizia sociale, cambiamento climatico, lì sono temi molto più mainstream. Vedere quanto se ne parla all’estero è una delle ragioni che hanno fatto nascere la necessità, l’urgenza di fare questo podcast. Il dibattito mi sembra ancora acerbo da noi.

Nella prima puntata iniziate con una suggestione: nessuno conosce mai davvero i propri genitori. Da persona cresciuta in una famiglia in cui si va in bagno almeno in tre alla volta ti chiedo: è un male?
Forse no. Magari ci piacerebbero anche di meno se sapessimo ogni singolo dettaglio. E non è un male neanche che i genitori non ci conoscano del tutto. Stupisce pensare che le persone che ci hanno messo al mondo siano all’oscuro di alcuni pezzi della nostra vita, ma è giusto così. Per quanto mi riguarda vale in qualsiasi relazione.

Hai scoperto qualcosa che non sapevi prima di questa esperienza?
Solo che non svengo davanti a un microfono, che è già molto. Risentirmi è ancora un incubo.

Tuo padre è l’uomo delle citazioni. Quante ce ne possiamo aspettare in questo podcast?
Inquantificabili.

Nel primo episodio ne fa un paio a tema genitori e figli dai film di Woody Allen. Vorrei aggiungerne una che mi ha sempre fatto ridere da Tutti dicono I love you. Alan Alda sta discutendo con il figlio repubblicano e a un certo punto urla alla moglie: «Portami una copia del mio testamento e una gomma da cancellare».
È esattamente così che facciamo il podcast. Registriamo ogni puntata seduti a un tavolo, testamento e gomma a portata di mano.


Il podcast di Giorgia e Gianrico Carofiglio Coffee for Two è disponibile da lunedì 15 febbraio sul nostro sito con una puntata ogni lunedì. Ne parleremo con i lettori e gli autori sul nuovo social Clubhouse giovedì alle 18.

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