Una cantante napoletana diventa virale, ma nessuno sa quanto ci sia di suo nelle sue canzoni. Il caso Grose – alias Giuliana Florio – accende il dibattito sul ruolo degli algoritmi nella musica. E ci costringe a ridefinire il significato stesso di creatività
Una donna di quasi trent’anni, originaria di Napoli ma residente ad Amsterdam, laureata in sociologia, si è fatta conoscere sui social con un trend così strano da risultare persino difficile da spiegare. Durante lunghe dirette, fingeva di essere un personaggio dei videogiochi: ripeteva ossessivamente le stesse frasi e gli stessi gesti, reagendo alle azioni di chi la stava guardando. «O cuore sacro di San Gennaro… frr uah, frr uah», diceva.
Era la fine del 2023, e la sua improvvisa popolarità aveva innescato un certo dibattito, almeno fra chi si interessa di questi fenomeni: era il simbolo della deriva dei social network o metteva piuttosto in scena il loro lato più assurdo, come in un esperimento sociologico? O, ancora, aveva semplicemente intuito le loro ossessioni, riuscendo a trasformarle in uno strumento di guadagno?
Fatto sta che poi – poco prima che l’attenzione fosse destinata, come sempre, a virare altrove – aveva deciso di smettere. E di dedicare tutte le sue energie creative a un altro progetto, all’apparenza più inflazionato: la musica.
Tutta questa premessa ci porta all’oggi, quando Giuliana Florio – questo il nome della protagonista – “è tornata virale”, come si dice in gergo. Ovvero: è tornata a far parlare di sé, soprattutto su TikTok, e ancora una volta ha diviso il pubblico.
Ha infatti pubblicato, con lo pseudonimo di “Grose”, alcune canzoni molto orecchiabili, che hanno raccolto apprezzamenti, ascolti in streaming e ricondivisioni. Finché qualcuno si è accorto di qualcosa di strano. La voce sembrava “troppo perfetta”, quasi metallica. All’apparenza era la sua, ma con qualcosa di artificiale.
Autentico
Il dibattito che si è acceso è dunque questo: queste canzoni sono autentiche o sono frutto dell’intelligenza artificiale? A che punto dell’intero processo creativo è intervenuta la tecnologia? Come facciamo a sapere cosa è vero e cosa no?
Solo dopo le polemiche, nella descrizione dei credits su Spotify, è apparsa questa scritta: «Alcune tracce presentano voci e produzione migliorate utilizzando l’intelligenza artificiale, sulla base di registrazioni vocali originali dell’artista e della sua visione creativa».
Non è ovviamente un’ammissione di colpa; anzi, così spiega che l’intervento è all’apparenza marginale, quasi più tecnico che artistico. Eppure, non è bastato per fermare le polemiche di chi crede che così si svilisce la musica. Viene meno il patto di trasparenza con chi ascolta e non si sa più distinguere cos’è autentico e cosa no.
La provocazione
Ancora una volta, Giuliana Florio sembra avere messo il dito nelle ferite scaturite dal nostro tempo. Se ne può dare un giudizio pessimo, come dimostrano i numerosi video critici circolati contro di lei. Ma è difficile negare che sia riuscita ad anticipare, in modo provocatorio, una questione destinata a diventare sempre più centrale.
Resta infatti il sospetto che l’intera operazione fosse pensata proprio così: una provocazione studiata per farsi scoprire e, al tempo stesso, per rendere evidente come la creatività stia cambiando pelle. Il tutto, ovviamente, con una buona dose di visibilità (e probabilmente anche di ritorno economico).
Ma anche se non fosse stato tutto così consapevole, il risultato non cambia. Il caso Grose ci costringe a fare i conti con il fatto che siamo già entrati in una fase di post-verità creativa, in cui distinguere ciò che è autentico da ciò che non lo è diventa sempre più difficile, al punto da mettere in discussione il significato stesso di talento.
Se chiunque può scrivere una canzone, anche senza conoscere la tecnica musicale, e se chiunque può superare i propri limiti vocali grazie agli algoritmi, da chi sarà composta la musica che ascolteremo domani? L’intelligenza artificiale vincerà mai Sanremo?
La sfida etica
Lo stesso discorso vale, naturalmente, anche per altre forme artistiche. Ha fatto molto discutere, qualche tempo fa, il libro Ipnocrazia di Jianwei Xun, quando si è scoperto che il suo autore non esiste: è il frutto della collaborazione tra l’intelligenza artificiale e il divulgatore Andrea Colamedici.
Oppure basti pensare alle immagini generate da ChatGpt che sembrano uscite direttamente dallo Studio Ghibli. Esistono già giornali scritti con l’intelligenza artificiale, così come libri e video interamente prodotti da algoritmi.
Ma la musica rischia di essere il linguaggio più profondamente coinvolto in questa rivoluzione, forse proprio non sarebbe la prima volta. Negli anni Settanta c’erano gruppi rock che rifiutavano categoricamente i sintetizzatori, accusati di snaturare la pienezza tecnica e la purezza della musica. E cosa dire dei campionamenti, fin dagli albori della musica elettronica o dell’hip hop?
Dai primi anni Duemila in poi, il dibattito si è concentrato sull’autotune: per alcuni è diventato uno strumento espressivo a tutti gli effetti, per altri ha svuotato la musica della sua autenticità. E ora, con l’intelligenza artificiale, quel dibattito si allarga: non si tratta più di correggere o manipolare, ma di generare. Un cambiamento che difficilmente potrà convincere chi ha sempre difeso l’integrità del processo creativo.
Eppure, è proprio qui che si gioca la sfida etica. Una sfida che riguarda tutti: artisti e ascoltatori. Se questo strumento esiste, perché non dovremmo usarlo? E se il risultato è una canzone che ci piace, è davvero importante sapere come è stata creata?
Vilipendio
Ovviamente, come accade con tutte le questioni complesse, non esiste una risposta giusta o sbagliata per definizione. Ognuno può decidere sulla base dei propri gusti, della propria sensibilità e della propria etica personale. È quello che sta già succedendo con Grose, alias Giuliana Florio, che oggi conta sia un pubblico entusiasta sia una schiera di critici piuttosto agguerriti.
Ma il suo caso è solo uno dei tanti. Nel mondo, esempi simili – anche molto diversi per stile e intenzione – stanno proliferando. L’intelligenza artificiale, ad esempio, ha permesso di riportare in vita una canzone dei Beatles che altrimenti sarebbe andata perduta: Now and Then, pubblicata nel 2023, è stata completata grazie a un algoritmo capace di isolare e ripulire la voce di John Lennon da una vecchia registrazione.
Nello stesso anno, è circolata online una presunta nuova canzone di Drake e The Weeknd: una hit perfettamente plausibile, ma interamente generata da un modello di intelligenza artificiale. Il brano è stato rimosso dalle piattaforme, ma ha sollevato una questione cruciale: cosa succede quando una voce diventa replicabile a comando?
Ancora più estremo è il caso di The Velvet Sundown, una band virtuale senza membri reali, che ha collezionato migliaia di ascolti su Spotify prima che si scoprisse essere un esperimento creativo.
E se usassimo gli algoritmi per resuscitare i morti? Sareste curiosi di ascoltare una canzone inedita con le voci di Ozzy Osbourne, Freddie Mercury, David Bowie, Elvis Presley o Jim Morrison? Fino a che punto sarebbe un vilipendio? Ovviamente c’è chi lo ha già fatto.
Oltre il Far West
Al momento, la musica sembra attraversare lo stesso Far West normativo ed etico che ha già investito altri settori, dove fissare i confini è tutt’altro che semplice. C’è chi sta provando a tracciarli, come l’Entertainment Industry Coalition, che ha messo nero su bianco un principio guida: l’intelligenza artificiale può essere usata per potenziare l’espressione umana, ma non per sostituirla. E, soprattutto, va tutelato il lavoro dei creatori.
Ma forse, più ancora degli aspetti legali, la questione tocca corde più profonde. L’irruzione dell’intelligenza artificiale rischia di essere il colpo finale per un settore già fragile. E se un giorno tutti i professionisti della musica venissero davvero sostituiti dagli algoritmi… rimarranno solo i concerti dei robot?
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