Il Labanof, Laboratorio di antropologia e odontologia forense, fa parte dell’Istituto di medicina legale dell’Università degli studi di Milano. Nasce nel 1995 come piccola unità di ricerca sui resti scheletrici e nel tempo diventa un laboratorio che si occupa di didattica, di ricerca, di “sociale”, e riempie uno spazio da colmare a cavallo tra la medicina legale, l’antropologia, le scienze forensi e la storia.

In breve quel che fa il Labanof è cercare di ricostruire crimine, violenza, sopraffazione oppure “semplicemente” l’identità dal corpo o dai suoi resti, che si tratti di interpretare segni di tortura su un richiedente asilo, di restituire un nome alla vittima di un omicidio o di comprendere la vita da resti appartenenti a società antiche.

Ripensando agli inizi, mi rendo conto che il Labanof è cambiato anche in virtù della storia del nostro paese. In questi 25 anni i mutamenti sociali e culturali hanno segnato profondamente il nostro lavoro, presentando nuove sfide.

Dal 1995 a oggi

I primi anni sono stati quelli della nascita di nuove prospettive e tecniche forensi. Dal mondo anglosassone si iniziava ad apprendere di applicazioni alla criminalistica di discipline fino ad allora meno note. Mentre il dna spopolava e sembrava essere già la panacea di ogni caso, nelle prime stanze del Labanof (fortemente voluto dal professor Marco Grandi) si coltivavano l’antropologia, l’odontologia e l’archeologia forensi, trasformando nozioni fino ad allora teoriche in applicazioni su casi reali, sensibilizzando le procure e le forze dell’ordine sull’importanza dell’archeologo nella ricerca di un morto occultato dalla mafia, del botanico nel comprendere l’epoca della morte e dell’antropologo nel restituire un volto a uno scheletro senza nome.

Erano gli anni dell’inizio del 3D (dalle tac alle ricostruzioni della scena del crimine), del boom della fede nella criminalistica da Csi, sostenuta anche dai media e dalle serie televisive, e della fiducia (eccessiva) nella scienza calata nei tribunali, gli anni del post “Milano da bere”, segnati non solo ma anche dalle bestie di Satana, dai riscoperti eccidi tra famiglie mafiose, dall’esplosione della camera iperbarica del Galeazzi, delle Torri gemelle a New York e dal disastro di Linate e del Pirellone da noi.

Era difficile immaginare quanto la crisi economica e l’impoverimento culturale avrebbero poi portato a un declino di questa “golden age” delle scienze forensi (forse anche per la delusione post innamoramento dovuta alla inadeguata gestione della parte operativa e sociale della medicina legale), tale da mettere a rischio le stesse discipline che hanno già chiuso i battenti in Inghilterra. 

Pochi sanno che in Italia si fanno sempre meno autopsie giudiziarie e c’è sempre meno dialogo reale tra scienza e magistratura e che in questa nuova èra va trovato il giusto equilibrio tra giustizia, salute e mondo della ricerca (come ha fatto la Francia) affinché realmente si possa mettere la medicina legale al servizio della società, anche attraverso lo studio dei morti.

Le rivoluzioni sociali

Tuttavia negli stessi anni grandi e piccole rivoluzioni sociali e geografiche in Italia e a Milano portarono comunque nuova linfa al nostro mondo, aprendo orizzonti forse ancora più importanti, riscattando e salvando in parte la reputazione delle scienze forensi.

Nel 1996 entra in vigore la nuova legge sulla violenza sessuale che riporta l’attenzione sull’importanza e la dignità della persona. E a Milano questo coincide con la nascita di Svs (Soccorso violenza sessuale e domestica) del Policlinico, uno dei più grandi centri europei del suo genere, diretto da Alessandra Kustermann.

Il Labanof non si occupa direttamente di violenza sessuale ma la contaminazione (anche per il fatto che alcuni di noi già lavoravano in Svs come medici legali) fu inevitabile, e si iniziò negli anni a parlare in laboratorio in maniera più consapevole di diritti, di violenza e anche di discriminazione.

Il connubio tra questi input culturali e l’innamoramento scientifico con le discipline dell’antropologia e della medicina legale, ma non solo, è probabilmente ciò che ci ha reso anche inconsciamente più inclini a far sì che dal nostro davanzale si potesse avere una prospettiva particolare sulla società e segnalare problemi che magari agli altri non erano così evidenti.

Da qui iniziò la nostra battaglia per l’identità, per dare un nome ai morti che non l’avevano perché non solo è giusto ma anche e soprattutto perché dietro ciascuno di loro c’è un padre, una madre, un figlio che cerca una persona scomparsa, magari per anni.

Tuttavia ogni anno nelle nostre sale autoptiche dove passano circa 1.000 morti, almeno una quarantina presentava problemi identificativi e di questi una decina veniva sepolta sotto una lapide con la scritta “sconosciuto”, anche se era stato denunciato scomparso regolarmente in un’altra città italiana: il sistema “persone scomparse” non parlava con quello relativo ai cadaveri senza nome. 

Ci alleammo con le Associazioni dedicate e con i media e insieme la pressione fu tale che portò a un’interrogazione parlamentare nel 2007, che a sua volta portò all’istituzione dell’Ufficio del commissario straordinario per le persone scomparse e alla relativa legge del 2012. Oggi, anche se la strada è ancora in salita, la questione dei cadaveri senza identità sta ricevendo maggiori attenzioni ed è stato creato un registro nazionale.

I “casi mediatici”

Anche nella decade più recente, dal 2010 al 2020, il Labanof è stato testimone di cambiamenti nei costumi: mentre prima le stanze del Laboratorio e dell’Istituto in generale erano impegnate con omicidi efferati della malavita dell’est o della nostra criminalità organizzata, che destavano meno interesse tra il pubblico, negli anni più recenti sono esplosi i “casi mediatici” i cui processi hanno siglato i capitoli più inquietanti del rapporto scienza, giustizia e media.

Ma, di nuovo, quasi come se ci fosse sempre un riscatto, la stessa decade vide svilupparsi quella che alcuni chiamano medicina legale umanitaria, che ha un afflato più ampio, quello di tutelare i diritti. E che coincise con l’acuirsi, dopo il 2010, dei fenomeni migratori.

Dal 2013, in Italia in particolare, gli sbarchi di richiedenti asilo, di minori non accompagnati così come le morti durante i naufragi di decine di migliaia di giovani, donne e bambini che non verranno mai identificati, crearono nuove aree di lavoro e anche nuove sfide per il mondo delle scienze forensi.

Si trattava di applicare le stesse conoscenze criminalistiche ad ambiti diversi: leggere le cicatrici e le fratture sul corpo di un giovane africano, capire quando e come sono state prodotte, per cercare di accompagnarlo al meglio in un percorso di richiesta di protezione internazionale al fine di evitargli di tornare in un paese dove lo attenderebbero la tortura o la morte; applicare le nuove conoscenze radiologiche e antropologiche per meglio valutare l’età dei minori non accompagnati; accorgersi che mentre per i disastri dei “nostri” corriamo subito per identificare i morti, per quelli nel Mediterraneo non succede così, e che c’è bisogno di creare nuove regole e leggi, ma anche nuovi metodi scientifici per poter dare loro un nome perché, alla fine, neanche il dna può risolvere tutto.

Assenza di memoria

E sempre di più ci rendiamo conto di quanto la nostra scienza scandisca la storia di un’epoca. Esaminando i corpi delle vittime di persecuzioni e di passaggi in Libia, così come i resti di adolescenti morti, rinchiusi nelle sentine di barconi che ricordano troppo da vicino le navi negriere, ci si rende conto di aver nuovamente toccato il fondo, cosa purtroppo ricorrente nell’umano: errori che si ripetono per l’assenza di memoria.

E a proposito di storia, la parte del Labanof che lavora su resti antichi, provenienti dalle principali necropoli milanesi e lombarde, è quella che ci aiuta a mettere tutto in prospettiva, anche il flagello chiamato Covid. Una parte del laboratorio è infatti “abitata” dalle vittime delle epidemie antiche – tifo, pestilenze, colera – che continuano a ricordarci quanto, a millenni di distanza, indipendentemente dalla scienza e dalla tecnologia, possiamo ancora essere fragili nello stesso identico modo.

È per raccontare tutto questo ma soprattutto l’importanza che la scienza può avere nel tutelare i vulnerabili, nell’assistere la giustizia, nel far rispettare i diritti di tutti e anche nell’acquisire una più ampia prospettiva storica sulla violenza e la discriminazione, che abbiamo voluto crescere nella direzione di uno scambio diretto con il pubblico attraverso la creazione di un museo universitario delle scienze antropologiche, forensi e per i diritti umani che grazie alla governance di Unimi, Fondazione Cariplo, Fondazioni Isacchi Samaja e Terres des Hommes inizierà dalla fine del 2021 un percorso che aprirà le porte a un mondo ancora troppo poco conosciuto.

Nella foto: Cristina Cattaneo (LaPresse)

Il podcast

In occasione dei 25 anni dalla fondazione del Labanof (Laboratorio di antropologia e odontologia forense) Rai Radio 3 ha prodotto un podcast originale dal titolo Corpi senza nome. Cinque episodi in cui Cristina Cattaneo (foto LaPresse) , responsabile scientifico del Laboratorio che ha fondato nel 1995 con il professor Marco Grandi, racconta, insieme ai suoi colleghi odontologi, biologi, archeologi, naturalisti e antropologi i fatti di cronaca e le storie che hanno segnato il loro lavoro. «Tutto nasce dai resti umani. Dal corpo e dallo scheletro che continuano sempre a raccontarsi e possono restituire a noi la storia del loro passato» sono le parole di Cattaneo riportate nel lancio del podcast. Corpi senza nome, vincitore del Prix Italia 2020, è disponibile online da oggi 23 novembre su RaiPlay Radio.

© Riproduzione riservata