È sempre cosa buona e giusta parlare di Francesco Guccini, cantautore e scrittore di assoluta originalità, un mito per generazione di italiani. Secondo Umberto Eco «il più colto cantautore italiano», secondo Edmondo Berselli «forever young, come Bob Dylan, oppure come gli eroi della Locomotiva, che sono “tutti giovani e belli”».

Festeggiamo i suoi 80 anni, è nato a Modena nel 1940, finalista al Campiello con Tralummescuro. Ballata per un paese al tramonto dedicata alla sua Pavana, ora in libreria con Che cosa sa Minosse (Giunti), noir appenninico in coppia con Loriano Macchiavelli.

Qui parliamo delle nuove canzoni di Note di viaggio perché, a un anno di distanza dalla pubblicazione del primo capitolo, è uscita la seconda parte, altre 12 canzoni di Francesco Guccini reinterpretate da grandi nomi della musica italiana sotto la direzione artistica di Mauro Pagani. Vinicio Capossela, Emma, Fabio Ilacqua, Levante, Petra Magoni, Mahmood, Fiorella Mannoia, Ermal Meta, Gianna Nannini, Jack Savoretti, Roberto Vecchioni, Zucchero e i Musici. Nel capitolo precedente, oltre a un inedito di Guccini, Elisa, Luciano Ligabue, Carmen Consoli, Giuliano Sangiorgi, Nina Zilli, Brunori Sas, Malika Ayane, Francesco Gabbani, Samuele Bersani, Luca Carboni, Margherita Vicario, Manuel Agnelli, Mauro Pagani (che insieme a Guccini ha selezionato i brani).

Grandi canzoni e grandi interpreti. E questa storia la raccontano a Domani Mauro Pagani, Levante e Manuel Agnelli.


Manuel Agnelli – L’avvelenata

Mauro Pagani mi chiama.

Si tratta di rifare L'avvelenata di Francesco Guccini. Una versione a due voci, la mia e la sua.

Sono un grande fan di Mauro. Come musicista certamente, ma più di tutto come spirito guida.

Racconta le sue storie e ti dà un punto di vista. Puoi condividerlo o no, ma ha sempre un'opinione e questo aiuta parecchio a formarne una tua.

E poi mi mette calma.

All'arena di Verona abbiamo in programma una performance io, lui e Emma Marrone.

Proprio L'avvelenata. L'abbiamo registrata qualche mese prima ma mai fatta dal vivo, per quel che mi riguarda né da solo né in compagnia.

Le prove sono un disastro e la sera, oltre al pubblico presente, è in programma una diretta streaming davanti a diverse decine di migliaia di persone.

Io un po' in ansia chiamo Mauro a provare di nuovo nel mio camerino e lui con un sorriso dolce mi dice: «Manuel stai tranquillo, male che vada facciamo solo una figura di merda».

Poi penso a cosa ha significato Guccini per me, per la mia formazione musicale, la mia estetica, la mia etica.

Niente.

Io sono un colonizzato culturale. Appartengo a quella generazione che ha rifiutato in toto la tradizione cantautorale italiana, l'arte della novella in musica, la parola tramandata del cantastorie.

L'istinto, la rabbia, la voglia di esprimere energia, anche quella negativa, senza doverla spiegare con le parole, senza doverla giustificare, senza dovermi giustificare, mi porta verso il punk e il rock.

Combatto pigramente e senza alcun interesse contro il luogo comune che vuole il rock possibile solo per gli anglosassoni. I Sumeri hanno inventato la ruota 6.000 anni fa e, secondo lo stesso concetto, dovrebbero essere gli unici a poterla usare ancora oggi mentre noi sobbalziamo su slitte o pali trascinati da asini, buoi o, nella versione più contemporanea, salariati statali di fantozziana memoria. Invece la storia ci permette di contaminarci e di progredire e di arricchirci, senza gabbie e senza confini.

Basta metterci un po' di noi stessi.

So già cosa state pensando: va bene usare il rock 'n' roll in Italia e in italiano, ne possiamo parlare quanto volete, ma la vera ruota rimane quella che hanno fatto i Sumeri.

Perché ho tutta questa stima di Guccini allora?

Ne percepisco nitidamente la grandezza, certo. Ne ricordo le canzoni anche se non ho un suo disco, perché le sue canzoni fanno parte della nostra storia culturale.

Ma questi sono dettagli da pipparolo .

Io amo Guccini musicista e autore perché lui per me è importante ADESSO.

Le sue parole, il suo atteggiamento, il suo impegno, il suo disincanto, la sua passione, il suo grattarsi i coglioni, la sua razionalità e la sua furia mi servono adesso.

ADESSO spiegano cosa mi manca. Cosa non trovo più nella gente, nel mondo, nella musica che mi circonda e nella mia vita.

Adesso ho bisogno di Guccini.

Tardi forse.

Non troppo tardi per dirti grazie.
 

Levante – Culodritto

Esistono delle verità spesso taciute, talvolta sussurrate a qualche orecchio amico che sappia custodirne la segretezza, e mai (non sia mai) dichiarate con serena nonchalance a uditori colti e giudicanti. Sono verità a forma di boomerang che, una volta lanciate, tornano indietro con la rara intenzione di non farti male. Spesso dipendono dal contesto familiare e sociale in cui cresci, dagli stimoli che ricevi, dalla curiosità che ti abita. Raramente raccontano della persona che sei, forse solo di quella che non sei stata. Nella casa di famiglia a Palagonia, nell’entroterra siculo, la musica che si sentiva a tutto volume era quella dei miei fratelli quando, nel pomeriggio, si poteva utilizzare lo stereo lasciando risuonare per tutto l’appartamento i chitarroni elettrici, il suono degli anni novanta e i cavalli di battaglia delle glorie del rock. Mia madre si accontentava dei suggerimenti radiofonici di natura romantica, mio padre era un grande amante della musica soul e della classica. Io, che invento canzoni da che ho memoria, avevo trovato le mie eroine musicali in ragazze anticonformiste, per lo più arrabbiate, e in grado di difendersi da sole, a colpi di chitarra e testi taglienti. A casa mia Guccini non ci era mai entrato ma la vita, superata l’infanzia, mi diede delle chance molto valide per avvicinarmi a lui.

Lasciata Palagonia per la grigia Torino, al liceo mi ritrovai gomito a gomito con un compagno di banco pronto a passarmi i suoi cd masterizzati con le voci del cantautorato più serio in circolazione o, in alcuni casi, ormai circolato.

Sarebbe stato un buon momento per consegnare i miei diciassette anni alla musica di un uomo saggio e ricco di sguardi sul mondo ma ancora una volta scelsi il rumore della mia adolescenza, le donne potenti e qualche band pronta a regalarmi conforto e adrenalina sotto palco.

La professoressa di italiano mi chiese di portare la chitarra in classe «così ci canti Cirano».

Non mi tirai indietro ma nemmeno fui felice di deludere anche me stessa nell’eseguire un brano che non conoscevo.

La musica fa così, o si presenta con fare prepotente e ti si appiccica addosso perché sei pronto ad accoglierne l’immediatezza, la forza, oppure necessita di presentazioni e, nel caso di brani complessi, richiede un’introduzione convincente, coinvolgente. Nessuno ci presentò mai degnamente.

Nessuno prima di Luca Barbarossa il quale, avendomi ospite nel suo programma radiofonico durante il salone del libro, mi disse «Domani arriva Guccini, potresti cantare una sua canzone!». Rieccolo, l’uomo dalla penna a forma di spada che tornava a farmi tremare mentre la vita si ostinava a vederci così vicini seppur così distanti.

Mi fu proposto di cantare Culodritto e Culodritto fu. Al cospetto del maestro furono delle mani sudate, le mie, a suonare male la chitarra e lo sguardo del terrore, sempre il mio, a leggere e interpretare un testo che dal giorno alla notte mai avrei potuto memorizzare nella sua profonda complessità. Persi un’occasione per fare bene, nonostante la gentilezza lo spinse a dire che la cantavo meglio di lui, ma soprattutto sprecai l’opportunità di comprendere la poesia che mi era stata affidata, troppo concentrata a non ferire nessun gucciniano all’ascolto.

Ma, contrariamente a quanto si dice, i treni passano più di una volta e, nel nostro caso, tornò la locomotiva per lasciarmi salire a bordo e portarmi dove non avevo mai avuto il tempo, la voglia e l’età per andare: tra le parole di Francesco Guccini, per davvero.

Scoprire la poesia di questo grande artista, il suo sguardo critico, politico, umano, sognante… mi chiedo perché sia stato così difficile.

In occasione della raccolta delle sue più belle canzoni sono stata chiamata a prestare la mia voce, ancora una volta, a Culodritto, ed è stato per me un grande momento di rivincita rispetto al tempo perduto a non aver saputo ricevere nessun messaggio da quella musica. Struggente e tenera, la splendida lettera d’amore da parte di un padre alla propria figlia, dà consigli e dispensa rassicurazioni. Questa lettera, che avrei voluto ricevere anche io, è comunque arrivata a destinazione, pubblicata nel 1987, l’anno in cui sono nata, ha rivisto la luce cantata da me il giorno della nascita di mio padre, il 9 ottobre.

A casa mia Guccini non ci era mai entrato ma ci attraversò il cuore, un giorno, d’improvviso, senza farsi dimenticare.

Mauro Pagani – Le mie Note di viaggio

Ho sempre pensato che Francesco Guccini fosse un autore importante e significativo per la storia della canzone italiana, di conseguenza della cultura popolare della seconda parte del '900.

Così quando Dino Stewart e Raffaele Viganò (che definirei “discografici illuminati”) della Bmg, ai quali si è aggiunto, poi, Edoardo Tozzi, che con la sua gentilezza e pazienza, ha coordinato il progetto, sono venuti a trovarmi alle Officine Meccaniche per propormi di lavorare sul repertorio di Francesco, sin da subito ne sono stato intrigato e onorato.

Ci siamo trovati d'accordo che potesse essere una bellissima occasione per far sì che un genere musicale emblematico per una certa generazione, ormai adulta, arrivasse anche alle generazioni più giovani.

Insomma, si trattava di una bella sfida professionale!

Il lavoro preparatorio è stato lungo e sempre condiviso.

Ho trascorso giornate intere a fare ascolti provando ad associare con l'immaginazione gli interpreti al repertorio.

Perché l'altra sfida che mi ero posto era quella di proporre una selezione di brani che facesse riemergere dei pezzi “minori” di Francesco, ma che ho sempre pensato fossero dei piccoli grandi capolavori cantautorali.

Lavorare su testi così pregni di bellezza e profondità è stato allo stesso momento molto facile e molto difficile.

In ogni canzone le parole si susseguono, sono dense, suggeriscono immagini, disegnano atmosfere. È stato necessario leggere e rileggere, ascoltare e riascoltare. E poi cercare di far sì che la musica volasse alta ad accompagnare i versi.

Quando ho dovuto decidere gli interpreti, imprescindibile è stato coinvolgere alcuni tra i grandi protagonisti della nostra canzone, ma altrettanto imprescindibile è stato invitare artisti generazionalmente più giovani. La cosa sorprendente è stato scoprire quanto, per molti di questi ultimi, il lavoro di Francesco fosse stato importante per il consolidamento della propria crescita personale e della propria carriera artistica. Quasi tutti avevano un'idea precisa di che pezzo scegliere tra quelli che gli avevo proposto, memori, in molti casi, dell'educazione musicale ricevuta dai genitori.

Penso di poter affermare che tutti i partecipanti al progetto, incluso me, abbiano usato questa occasione per “ringraziare” in modo diretto e con affetto il Maestrone, per quello che rappresenta con la sua arte.

E la dimostrazione è stata la sincera felicità da parte di ciascuno degli artisti invitati, che allo squillare della mia chiamata hanno accettato, senza esitazione.

Il passo successivo è stato convocare una squadra di musicisti di grande livello che aiutassero a tradurre le mie suggestioni e le mie emozioni in suono. Così ho potuto contare sulla disponibilità e l'entusiasmo di Elio Rivagli, raffinatissimo batterista, di Max Gelsi, principe del basso, di Luca Colombo e del suo elegante tocco alla chitarra, del gusto e della creatività di Luca Mattioni alle tastiere.

E poi, l'orchestra d'archi Ensemble Symphony Orchestra, i fiati capitanati da Gabriele Comeglio e l'inconfondibile fisarmonica di Walter Porro. Il tutto registrato e mixato dalla straordinaria abilità del mio fido braccio destro Giuseppe Salvadori.

Certo la vita è stata generosa con me, mi ha offerto di lavorare con artisti speciali, tra i quali Guccini e Fabrizio De Andrè.

Il mio rapporto lavorativo con loro è stato molto diverso. Se con Francesco ho avuto la libertà di produrre e arrangiare pezzi da lui scritti negli anni, con Fabrizio ho scritto e prodotto due dischi, Creuza de Ma e Le Nuvole. Francesco e Fabrizio, due spiriti molto simili tra di loro, e contemporaneamente diversi. Accomunati dalla capacità di saper scrutare a fondo nell'animo umano e di tradurne in parole le sensazioni, i tumulti.

E come sempre mi piace dire quando racconto del mio incontro artistico con Francesco: ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto!

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