Spesso le persone mi domandano perché scrivo in italiano se sono americana. Qualcuno mi chiede se scrivere in una lingua straniera è una specie di sfida personale, come lo è stato per l’autrice statunitense Jhumpa Lahiri, un colpo di fulmine linguistico in età adulta.

O la mia decisione è piuttosto frutto di considerazioni pratiche, di mercato, come quella che spinse il polacco Conrad e il russo Nabokov a scrivere in inglese per poter pubblicare nelle rispettive terre dove immigrarono?

Oppure, qualcuno propone, ho forse scelto l’italiano per un motivo filosofico: per poter, secondo il pensiero di Bachtin, osservare i personaggi da fuori, non dunque con immedesimazione bensì con un’esteriorità (o “essotopia”) necessaria per la conoscenza di sé. O magari è per un motivo letterario, per emulare la prosa di qualche scrittore italiano che ammiro?

La verità della mia scelta è molto meno intellettuale e molto più strana. Anzi, non è neanche stata una scelta, ma piuttosto un abbandonarmi alla lingua come ci si lascia andare a un dolce sonno.

Rinascita

Infatti questo mio percorso inizia nel momento in cui ero stesa su un letto al Waitakere Hospital, in Nuova Zelanda, quando al termine del parto cesareo d’emergenza mi misero sul petto mio figlio. Lo guardai per la prima volta. Assomigliava a un piccolo guerriero maori: faccia contorta dal pianto e abbronzata dall’itterizia, capelli neri, grande bocca carnosa. Ero sbalordita, felice, sfinita. Riuscii soltanto a borbottare in una lingua ibrida che nessuno capì:

«Look at your muso».

Deve essere stato un effetto collaterale dell’epidurale, perché non avevo alcun ricordo conscio che il termine “muso” potesse anche indicare una bocca umana, o della sua intraducibile sfumatura. L’italiano non lo parlavo quasi più da anni. Nonostante l’avessi imparato allo stesso modo in cui assorbivo il sole in spiaggia negli anni Ottanta, cioè con pigrizia adolescenziale e senza filtri, avevo tagliato con il mio passato napoletano.

Le interrogazioni del liceo linguistico, da studentessa di scambio, e i successivi esami all’Orientale erano dei ricordi lontani, quasi delle allucinazioni. Ormai perfino nelle rare telefonate con gli amici italiani mi si annodava la lingua. Durante la gravidanza mi gingillavo con l’idea di insegnarlo al mio bambino, per i noti vantaggi cognitivi del bilinguismo, ma ero poco convinta di potercela fare. Invece fu quel lapsus, quel muso, a deciderlo per me. 

Codici segreti

Scrivevo fin da piccola – racconti e poesie nella mia madrelingua – e avevo insistito a farlo anche durante la mia lunga permanenza in Italia. In quegli anni l’inglese era il mio codice segreto, un linguaggio intimo che nessuno poteva penetrare, un diario chiuso con un lucchetto. Per proteggere i miei pensieri più indicibili semmai mi confessavo in cirillico, in bulgaro, la mia lingua biennale. Dopo la laurea avevo fatto ritorno al mondo anglofono, non più Washington D.C. ma Auckland, dove in uno sfogo di nostalgia avevo buttato giù una storia ambientata nei quartieri spagnoli, ficcata prontamente in un cassetto.

In questa terra remota, capovolta, improvvisamente fu l’italiano a fungere da codice segreto. Al parco giochi o al mare io e mio figlio, accompagnati in seguito dal secondo, potevamo esprimerci con l’assoluta certezza che nessuno ci avrebbe capito; spesso neanche loro papà comprendeva. Riempii la casa di filastrocche italiane, di canzoncine, di Pimpa, impegnandomi a recuperare quella lingua che avevo abbandonato con la stessa noncuranza con la quale l’aveva acquisita. Leggendo la Ferrante riaffiorarono espressioni regionali a lungo sepolte, mi tornarono in mente le ricette della mia mamma ospite di Castellammare. La mia casa profumava di aglio, di minestrone.

In italiano ero libera di essere una mamma calorosa, espressiva, a volte un po’ esagerata; libera di giocare e di essere un po’ bambina, di incarnare l’anima che ero sempre stata. Mi perdonavo gli sbagli e, guardando i miei maschietti che spontaneamente dialogavano tra di loro in italiano, mi inorgoglivo. Mi sentivo realizzata. O forse no.

Tirai fuori il vecchio dattiloscritto e lo revisionai una, due, tre, quattro volte. Ma c’era sempre qualcosa che non andava, qualcosa non mi era chiaro. Ero indecisa se inviarlo a una casa editrice americana o bruciarlo.

Visioni

Un giorno mi telefonò un’amica, Shelley, che, reduce da un corso di reiki, cercava conoscenti su cui esercitarsi prima di mettersi in proprio. Magari, suggerì, quella terapia alternativa giapponese avrebbe sbloccato le mie energie letterarie? Nella sua villetta in legno d’inizio secolo, piena come tutte le case neozelandesi di carattere e di spifferi, mi preparò un tè caldo.

«Prima di cominciare» disse «ti devo dire una cosa.» Spesso durante le sedute di reiki, mi spiegò, aveva avuto delle “visioni” di eventi futuri che poi si erano avverati.

Non capivo se fosse una promessa di aiuto o un avvertimento.

Mi fece sdraiare sul dorso su un lettino da massaggio (ancora un letto!) e mi mise sopra una coperta di lana, dicendomi di chiudere gli occhi. Quando iniziò a passare le mani sopra il mio corpo, senza neppure sfiorarlo, fu come sentire il calore dell’estate. Mi immaginai in una barchetta al largo di Napoli, cullata dal golfo, vidi sopra di me la volta nera del cielo perforata da mille stelle. Al sussurro delle onde mi assopii, scivolando in una specie di dormiveglia in cui feci un lungo viaggio immaginario, per mare, per terra. Infine giunsi al punto di partenza, nella barchetta nel golfo di Napoli ad avvertire il respiro lieve della mia amica, le sue calde mani che si allontanavano. 

Tornammo alla realtà, alle nostre tazze vuote, ma Shelley era agitata, le tremava la voce. Aveva visto qualcosa, il mio romanzo pubblicato – mi disse tutto d’un fiato – aveva visto le parole stesse, stampate in inchiostro nero, però non riusciva a capirle.

«Come, non riuscivi a capirle?»

«Erano in italiano».

Abbandonarmi

Rientrai a casa incredula ma elettrizzata. Mi misi subito in moto, pregai un mio amico sardo di tradurre il mio manoscritto a pagamento: era spiacente ma aveva troppi impegni. Mi sconfortai. Un tempo ero stata sì in grado di scrivere una tesi, la cui rilegatura impolverata mi fissava dallo scaffale, però mica era prosa. Un decennio in Italia a leggere solo manuali di semiotica, ma che spreco! La mia profonda ignoranza della letteratura italiana mi addolorava. Se non fosse stata per l’incoraggiamento di una mia amica napoletana, pure lei laureata all’Orientale ed esule in questo paradiso, non avrei avuto la sfacciataggine e l’ingenuità necessarie per tentare una mia traduzione.   

Ma alla fine non l’ho tradotto: l’ho riscritto. Perché adoperando l’italiano (a partire dal titolo, Perduti nei Quartieri Spagnoli riuscivo a percepire con folgorante chiarezza, come se avessi acceso una radio ad alto volume, tutti gli errori di tono e di ritmo nel testo originale. Parole bugiarde, descrizioni affettate, battute di dialogo forzate, brani inutili o sgradevoli che mi aggredivano i timpani come note stonate. E riuscivo a correggerli con facilità, e soprattutto con gioia, forse quella stessa gioia che Lahiri dichiara di provare quando scrive in italiano, come se la letteratura fosse, per dirla con Tabucchi, «un gioco a cui bisognerebbe giocare seriamente come fanno i bambini».

Al tempo stesso il mio orecchio non era più abituato a sentire l’italiano nella sua attualità, a leggere i giornali e discutere con adulti di politica. Non disponevo più di quella gamma di risposte scintillanti o frasi a effetto, non ero più capace di fare bella figura, di prendere trenta e lode. La grande distanza geografica e il lungo distacco linguistico-culturale avevano purgato il mio italiano di molte convenzioni per renderlo semplicemente la lingua giocosamente reinventata da me e dai miei figli su un’isola in mezzo all’oceano pacifico. Eppure con quell’italiano scorticato, quasi nudo, sentivo di poter descrivere con maggiore sincerità e precisione luoghi, persone, stati d’animo.

Il mio rapporto intimo con la lingua man mano si è intensificato a tal punto da farmi pensare che le parole sulla pagina scaturissero direttamente dall’anima, spiegazione che mi è parsa ancora più plausibile con la stesura del mio secondo romanzo appena uscito, L’americana, di nuovo pubblicato da Giunti e da Antonio Franchini, scritto sin dall’incipit senza alcuna contaminazione inglese. Forse ho fatto questo collegamento soltanto grazie alla trama stessa – un viaggio nella femminilità che porta la protagonista nelle pieghe più buie della propria psiche – e alla nuova consapevolezza che scrivo per motivi spirituali, per sciogliere i nodi della mia anima. In ogni caso l’italiano mi ha restituito quella capacità di ascolto che possedevo da bambina quando il mondo mi sembrava un luogo magico, infuocato di significato. 

Per me ogni frase che inserisco all’interno di una struttura narrativa è destinata ad avere una sua forma, con un suo ritmo musicale: basta capire qual è. Posso anche modificarla più volte, ma con l’udito sempre teso, e quando tutto d’un tratto la frase mi suona giusta ne sono profondamente convinta e non la tocco più (se non per correggere una preposizione o il congiuntivo, due dei miei punti deboli). Altre frasi si materializzano dal nulla, sussurratemi all’orecchio perfette e commuoventi come le parole di un amante, e le trascrivo piena di gratitudine e umiltà. Simili esperienze “sonore” saranno comuni a molti autori, non saprei, so soltanto che scrivendo in inglese non mi è mai successo.

Nella mia madrelingua sono un po’ sorda. Nessuna melodia, nessun bisbiglio. Sento soltanto il ronzio degli ingranaggi del mio cervello che pensa pensa pensa, che riscrive una stessa frase in cento modi diversi senza mai riconoscere la versione migliore. Questo silenzio tombale non si spiega.

Sono insegnante d’inglese dopotutto; sono un dizionario di sinonimi ambulante, un manuale di punteggiatura, un tomo di coniugazioni verbali. In quella lingua ricca ed elastica ho un livello di bravura tecnica che probabilmente non raggiungerò mai in italiano. Ho curato io l’edizione americana di Perduti, un esercizio stimolante, certo, anche divertente, ma alla fine leggermente deludente. Perché quando scrivo nella mia madrelingua c’è qualcosa che manca, forse un rilassamento delle regole o una capacità di abbandonarmi, di arrendermi alla felicità.


Heddi Goodrich è autrice del libro L’americana, appena pubblicato per Giunti editore

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