Ogni anno quando arriva il 14 febbraio, pur non disdegnando affatto il rituale consumistico di cene e regali, San Valentino per me è soprattutto il compleanno di due presenze che riesco difficilmente a definire. Appoggiandomi al linguaggio depositato dovrei dire “i miei gatti”, ma è un’espressione insufficiente, logora, che lascia fuori il senso, la forma specifica della mia/nostra vita in simbiosi, il mistero di questo rapporto invadente e imprevisto che ha riscritto per intero la mia personalità e ciò che la circonda.

Non ero affatto un “amante degli animali”: da bambino i cartoni con gli animali li scartavo sempre, di fisso. Purissima indifferenza. Ho sempre preferito le persone grandi a quelle che Ortese chiamava le piccole persone. Ora invece: io e loro, un essere umano e due felini, per qualcuno bellissimi, per altri inquietanti, mostruosi. “Scusa ma a me fanno impressione”, “Ma sono malati?”.

Da dodici anni vivo con Mirtilla – che prima di venire a vivere con me si chiamava Pandora, e avrebbe potuto chiamarsi Proserpina, Emily o Rosaspina, se avessi scelto un altro dei nomi che mi giravano in testa – e Purè, che si chiamava Pluto, e avrebbe potuto chiamarsi Bambù oppure León. Fosse stato per il mio ex: Poverina e Purtroppo. Li avrebbe battezzati così.

Nati a San Valentino

Sono nati il 14 febbraio, nella notte di San Valentino, assieme a un terzo fratello che ha vissuto solo pochi giorni, e da quando hanno compiuto tre mesi abbiamo iniziato a condividere gli spazi, il tempo e tutto ciò che esula dalle due categorie. Erano con me quando la mia vita era radicalmente altro – un’altra relazione sentimentale, un’altra casa –, e sono con me ora che vivo con il mio ragazzo ormai da otto anni.

Sono due Devon Rex ma li scambiano spesso per degli Sphynx, i “gatti nudi”, sebbene loro un po’ di peluria ce l’abbiano: pelo raso, tipo velluto. Mi chiedono sempre se sono egiziani e restano tutti delusi quando rispondo che l’Egitto non c’entra niente, la razza è nata nella regione inglese del Devonshire negli anni ’60, quando – cronaca, leggenda – la gatta di una signora del luogo si accoppiò con una creatura che viveva nei pressi di una miniera abbandonata (torna l’elemento ctonio, l’origine raccapricciante).

Li ho scelti per il loro aspetto: il viso triangolare, gli occhi iperestesi e le orecchie eclatanti, tipo antenne paraboliche, baffi cortissimi, pieni di grinze. “Ma il loro aspetto è comunque meno particolare del loro temperamento”, tuonò minacciosa la loro veterinaria, nonché allevatrice, affidandomeli. Non esagerava. Irruenti, sfacciati, a tratti ingestibili. Li odio, in certi momenti semplicemente li odio. Che m’è saltato in mente, mi ritrovo a pensare, e di più: quanto ancora avranno da vivere? Segue senso di colpa, paura di perderli. Li stringo, li bacio. E cerco su internet appigli sull’aspettativa di vita: ditemi che resterete con me ancora un decennio. Esistono gatti arrivati ai trent’anni?

Ossessione simbiotica

Sono ormai due gatti più che adulti ma tempo non li ha calmati, anzi semmai ne ha esasperato gli eccessi, gli accanimenti. “Non li hai educati” – mi sono sentito dire più volte. “Ma li fai salire sul tavolo?“. Come due scimmie mi stanno sempre addosso, schiena, spalle, dentro le felpe: giro per casa con loro aggrappati a parti del mio corpo. Vanno dappertutto, non stanno mai zitti. Iperattivi e presenzialisti, non ho movimenti e attività indipendenti dai loro.

In quest’annata di chiusure e attività a distanza, premi, presentazioni, collegamenti tv, mi è diventato sempre più difficile fare incontri o interviste via webcam: come accendo la ring light e inizio a parlare/intervenire/rispondere, loro prendono a urlare. Di fisso, la gente chiede: “Ma è un neonato?”, “Sento un bambino che piange”, oppure: “Stanno scannando qualcuno”. Ho cancellato un impegno, di recente, quando il tecnico dall’altra parte dello schermo al terzo miagolio ha intimato: “O li abbatti o non possiamo iniziare”.

Insieme abbiamo cambiato sette o otto appartamenti: si dice che i gatti patiscono tanto i trasferimenti, loro mai fatto una piega. Sono con me quando le cose vanno bene e quando vanno male, c’erano quando arrivavano le minacce di sfratto, quando ho dormito per mesi su un materasso fatto solo di lenzuola e cartoni, quando la mia vita è diventata tutta febbre, letto e divano, fino a una diagnosi che mi ha chiesto un po’ per essere metabolizzata. C’erano quando non credevo avrei avuto una nuova settimana a disposizione. Sono il mio comunque, il mio va bene lo stesso. Sei-sette chili di cuore in più, cresciuti fuori dal corpo. Due puntelli emotivi, due centri di irradiazione affettiva nel mio panorama che è sempre stato più cerebrale che sentimentale.

Due caratteri opposti

Nati insieme, hanno sempre vissuto insieme: dovrebbero avere un carattere simile, e invece tutt’altro. Lui un materialista drogato di contatto: se non sta in braccio esce di testa. Freme, sbraita, ti fissa con gli occhi sgranati, finché non prendi e te lo metti addosso.

Lei invece altera e sprezzante, distoglie lo sguardo sistematicamente se provi a intercettarlo. Oltremodo testarda, adora fare e rifare le cose che tento di impedirle, come se non le fosse stata montata la scheda della memoria o della ragionevolezza. Adora l’olio d’oliva, le alte temperature e il mondo visto dalla finestra. Ama osservare da lontano, seguendo richiami a noi inacessibili: negli anni ho finito per attribuirle pulsioni mistiche, contatti ultraterreni. Ama il calore, dicevo, e quello estremo: il fuoco dei fornelli che stordisce, vapore incandescente, si apposta a fianco alle pentole in cui bolle l’acqua, la mia gatta piromane. Di recente si è scottata addormentandosi con la faccia schiantata sul termosifone: sommo struggimento, senso di colpa, due ore e le è passato tutto.

Fuori dall’adolescenza

Quella con loro è stata ed è la storia d’amore più lunga della mia vita. “Gatti, sono solo dei gatti”, qualcuno ha detto, direbbe, eppure mi hanno influenzato come nessuno umano ha mai fatto. Quando li ho presi con me ero ancora all’università e non lavoravo, vivevo col mio ragazzo dell’epoca e coi soldi mi aiutavano i miei. Quando la mia relazione è finita avrei potuto tornare a stare da mia madre, sarebbe stato molto più comodo, facile, sensato, ma avrei dovuto rinunciare a loro, darli via. Cercargli un’altra famiglia. Mi sono trovato un lavoro, per la prima volta nella mia vita. È solo per loro che ho provato a uscire dall’adolescenza.

Sempre, in tutti questi anni, loro sono stati la mia responsabilità inderogabile, il punto fermo. Figlio di genitori che si sono separati prestissimo, di una famiglia deflagrata sul nascere, non ho avuto davanti agli occhi grandi modelli di dedizione all’altro, non sono abituato a fidarmi/essere affidabile. Loro sono stati il mio carburante inconsapevole, mi hanno infuso la forza di resistere, nonostante le intemperie della vita da freelance. In qualsiasi situazione impervia, per i soldi o il lavoro, io avevo chiaro che dovevo obbligatoriamente trovare una soluzione. Ho imparato a stare, a salvare qualcosa dalla slavina del tempo: ho capito, proprio attraverso questi gatti esagitati, cosa significa occuparsi durevolmente di qualcuno, farsi rifugio, cuccia ambulante. Ho scoperto il sacrificio che non ti sacrifica, l’espansione del sé che accoglie e sostiene, la diffusione extrapersonale dell’ego.

Il dono dell’antispecismo

Attraverso il mio rapporto con loro ho anche iniziato a riflettere sul rapporto uomo-animale, mi sono avvicinato all’antispecismo, adottando uno stile di vita il più cruelty-free possibile e una dieta integralmente vegetale: averli in casa mi ha fornito un accesso diretto alla vita animale, all’entità della posta in gioco quando si parla di animalismo, diritti degli animali. Il loro piacere è diventato il mio piacere, e il loro dolore, uguale. Ho iniziato ad avvertire che è proprio solo questione di contingenze, coordinate privilegiate: se mi trovassi con tutti quegli esseri senzienti in giro per il mondo che patiscono abusi e violenze, io sentirei le stesse cose. E non ho potuto più fare finta di niente. Le differenze tra uomo e animale non giustificano l’orrore che quotidianamente viene compiuto, soprattutto oggi, nel nostro Occidente straboccante di alternative.

Negli occhi dei miei gatti io vedo gli occhi di tutti gli animali non umani massacrati, e viceversa. Gli occhi dei miei gatti sono una miniatura del potenziale affettivo rimosso, negato, di tutto ciò che vorrei salvare dalla furia degli allevamenti intensivi, dei mattatoi, delle battute di caccia. Dal cuore insieme sadico e cieco della società, che si ostina ad abusare del proprio potere, della forza bruta di oppressione, sottomissione, tortura.

Ho per maestri di vita due gatti nati a San Valentino, due fratelli borderline che mi hanno reso un po’ più animale, gatto tra i gatti. E ora mentre finisco di scrivere questo pezzo sono come al solito con loro, sul divano sommerso nella coltre di coperte e cuscini, io e loro, avvolti e sospesi insieme nel tempo che non è davvero passato, dodici anni di nuovi inizi, pervaso del sentimento più alchemico che m’è stato dato di sperimentare finora, vivendo.

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