Mulini Nuovi, inverno 1947-48. Mia mamma lavorava in Maserati, non poteva accudirmi e durante le sue ore di lavoro mi lasciava da mia zia che faceva (come si diceva allora) la parrucchiera in casa. Zia mi teneva in una specie di sacco imbottito e ricamato, il porte-enfant, che sistemava su un cassettone nella sala dove serviva le clienti, puntellandolo coi cuscini; le signore arrivavano, scoprivano il bebé (avrò avuto sette-otto mesi) e si affollavano a fargli smorfie e smancerie. Io, nella mia visuale dal basso, vedevo queste bocche spalmate di rossetto che si muovevano come per mangiarmi, ne ero terrorizzato. Il trauma della donna come detentrice di cavità sanguinolente e cannibali non mi è più passato, mi ha segnato la vita – anche dopo le elaborazioni adulte, anche dopo che con qualcuna ho fatto sesso, anche ora che son vecchio. La femminilità delle donne continua a farmi paura, perfino quando non sono le donne a indossarla. Per questo mi fa paura la fluidità sessuale, perché ci sento una femminilità diffusa e vincente, come a certe lesbiche succede il contrario, di veder affiorare il maschile dove non vorrebbero; “per me”, mi diceva un’amica l’altro giorno, “i maschi sono solo paesaggio”. Le persone omosessuali traumatizzate non ce la fanno a essere “fluide”, e intuendo che il trend progressista si indirizza verso una fluidità normativa si sentono escluse.

Fino a non molti anni fa pensavo che la mia paura delle donne fosse un fatto privato e nettamente minoritario, legato alla conformazione e alla storia della mia nevrosi; ma ultimamente vedo intorno a me molti maschi eterosessuali spaventati dalle donne, sia pure per ragioni del tutto diverse. Ci si capisce al volo, con un’occhiata o una mezza battuta, c

Mulini Nuovi, inverno 1947-48. Mia mamma lavorava in Maserati, non poteva accudirmi e durante le sue ore di lavoro mi lasciava da mia zia che faceva (come si diceva allora) la parrucchiera in casa. Zia mi teneva in una specie di sacco imbottito e ricamato, il porte-enfant, che sistemava su un cassettone nella sala dove serviva le clienti, puntellandolo coi cuscini; le signore arrivavano, scoprivano il bebé (avrò avuto sette-otto mesi) e si affollavano a fargli smorfie e smancerie. Io, nella mia visuale dal basso, vedevo queste bocche spalmate di rossetto che si muovevano come per mangiarmi, ne ero terrorizzato. Il trauma della donna come detentrice di cavità sanguinolente e cannibali non mi è più passato, mi ha segnato la vita – anche dopo le elaborazioni adulte, anche dopo che con qualcuna ho fatto sesso, anche ora che son vecchio. La femminilità delle donne continua a farmi paura, perfino quando non sono le donne a indossarla.

Per questo mi fa paura la fluidità sessuale, perché ci sento una femminilità diffusa e vincente, come a certe lesbiche succede il contrario, di veder affiorare il maschile dove non vorrebbero. «Per me», mi diceva un’amica l’altro giorno, «i maschi sono solo paesaggio». Le persone omosessuali traumatizzate non ce la fanno a essere “fluide”, e intuendo che il trend progressista si indirizza verso una fluidità normativa si sentono escluse.

Fino a non molti anni fa pensavo che la mia paura delle donne fosse un fatto privato e nettamente minoritario, legato alla conformazione e alla storia della mia nevrosi; ma ultimamente vedo intorno a me molti maschi eterosessuali spaventati dalle donne, sia pure per ragioni del tutto diverse. Ci si capisce al volo, con un’occhiata o una mezza battuta, ci si sente fratelli nella diversità. E non parlo del timore antropologico, arcaico e quasi sacro, per il fatto che sono le donne a produrre la vita in un modo così vistoso e indiscutibile; né dell’ambiguo statuto del coito per cui il fallo può essere insieme scettro e aspettativa ansiogena; né del fastidio impanicato, soprattutto nei ceti meno colti, di fronte all’esibizione della fluidità – spiraglio che apre ai dubbi, minacciando armature costruite nei secoli: «E se mi piacessero? se fossi meno uomo di quanto immagino ?». La femminilità come pericolo strisciante, come segno di debolezza. No, il fenomeno mi pare più vasto e più precisamente connesso all’attualità socioculturale.

Mi sembra una paura che ha a che fare col senso di colpa, e che questo a sua volta abbia a che fare col potere. I maschi lo sanno, oscuramente o meno, quanto hanno sfruttato, o sottomesso, o discriminato le donne; col pretesto di amarle, e di eleggerle a custodi del nido familiare, le hanno “possedute” e confinate entro il perimetro delle occupazioni domestiche (mio padre, che era l’uomo più buono e tollerante del mondo, quando io compii un anno pretese che mamma lasciasse il lavoro ma questo non fece che aggiungere adorazione al mio terrore, e fu peggio).

Colpa e potere

Dilatando arbitrariamente la predisposizione biologica delle femmine ad aver cura dei cuccioli, i maschi si sono inventati delle “vocazioni” culturali che limitavano la donna entro certi ambiti della conoscenza e della tecnica, escludendole da altri: perfino alla Scuola Normale di Pisa, quando ci entrai nel 1966, sopravviveva il mito che nessuna donna fosse mai riuscita a diplomarsi in matematica. Le donne si occupino di abbellire e rendere gradevole la vita, mentre gli uomini escono per procacciarsi il necessario e sono adatti a governare la vita pubblica. «Fuori comando io», dicevano i vecchi al bar della Cooperativa, «ma in casa comanda mia moglie» – e ridevano soddisfatti. (Quel che volevano dire in realtà era «fuori lo so di non contare niente, ma mi sfogo in casa comandando su mia moglie»).

Sto sciorinando banalità, sono due secoli che di queste cose si discute e da tempo han cominciato a cambiare; ma gli uomini si sono spaventati davvero, a livello di massa, molto più recentemente. Alcuni reagiscono con la violenza cieca di chi si sente mancare la terra sotto i piedi, il potere che quasi non erano coscienti di esercitare adesso che sentono di perderlo gli annebbia il cervello; altri, i più intelligenti, capiscono che le donne hanno ragione nel loro rivendicare uno spazio e un’autorevolezza negati; si sono accorti che l’angelo della Storia non si fermerà, si sentono responsabili anche per le violenze commesse dai più rozzi e si rifugiano nella cautela. Camminano tra le parole come se camminassero sulle uova, fanno i femministi ed esagerano stupidamente; ogni volta che in tivù qualcuno pronuncia il falso luogo comune “le donne sono sempre migliori degli uomini”, dal pubblico scatta automatico l’applauso. Questo non fa bene nemmeno alle donne, che devono continuamente compiere un lavoro di demistificazione e snidare il potere maschile dalle sue nuove (più arretrate ?) trincee. La rivoluzione è in corso e lascerà le sue vittime sul campo, non da una parte sola; il discorso sulla provvisorietà necessaria delle “quote rosa” somiglia a quel che fu teorizzato sulla dittatura dei proletari, nell’attesa di una società senza classi; è finita come sappiamo, con le nomenklature e gli oligarchi, ma anche col vecchio ordine completamente rovesciato.

Pubblicare senza pensare

A proposito di nomenklatura: la presenza e il rango delle donne nei luoghi di potere pubblico si stanno (sia pure lentamente) riequilibrando – ma ho l’impressione che a livello della struttura economica i gangli della finanza (i soldi veri) siano ancora in mano maschile, mentre la rivincita femminile è più rapida nei livelli che chiamerei sovrastrutturali: la politica con le sue ideologie, le istituzioni nei ruoli più appariscenti e simbolici, ma soprattutto quel mare per eccellenza mobile e sensibile alle brezze superficiali che è la comunicazione – è in questo mare agitato che l’ansia dei maschi rasenta, mi pare, l’isterismo.

I social, che in tanti casi sanno essere strumenti di denuncia e liberazione, hanno anche incentivato enormemente l’ipocrisia. Proprio perché ora si tende a pubblicare a botta calda tutto quello che passa per la testa (senza prima “mordersi la lingua”, come raccomandava Calvino), proprio per questo si sa che quel che si pubblica può mettere nei guai. Ci sono tantissimi maschi, lo giuro, che in privato mi dicono di essere terrorizzati dallo strapotere femminile nella comunicazione pubblica, ma non sarebbero mai disposti a scriverlo. «Se no poi quelle» (e nel pronome dimostrativo risuona più paura che disprezzo) «mi si scatenano contro». La paura, come spesso succede quando si mischia alla rabbia in individui riflessivi, non va senza una sfumatura di umorismo iperbolico: si evocano (sempre in privato) fantasmi di femmine castratrici, mènadi o baccanti, virago con la loro corte di cavalier serventi e giovani lacché. Il mio io-bambino, bisognoso di conferme, respira aria di casa ma poi si insospettisce: non sarà ancora una volta una manovra strategica, una prudenza teatralizzata a scopi tattici, o una pauretta di eventuali discussioni coniugali? Questi non lo sanno nemmeno che cos’è la vera paura, quella paralizzante, davanti alle donne. Disegnano complotti di ipotetiche lobby femminili che spadroneggiano negli odierni salotti virtuali e televisivi, gruppi di scrittrici che magari personalmente si odiano ma pubblicamente “si tengono bordone”, pronte a crocifiggere chi parli contro una di loro; più interessate all’insperato potere mediatico (vagheggiato come un nuovo giocattolo) che al crollo del patriarcato.

Coda di paglia

Costruzioni paranoiche, forse; quel che temo, nella realtà del discorso culturale, è che parlar-bene-delle-donne-a-prescindere diventi un must per nascondere una impresentabile coda di paglia. Che diventi, ancora una volta, una faccenda di noi contro loro; come i vecchi della cooperativa, sostituendo alla “casa” le case editrici.

Che ora le case editrici, o i giornali, o le redazioni dei programmi sportivi, cerchino a tutti i costi voci femminili non mi pare un guaio, così finalmente cadrà ogni alibi e si vedrà chi vale davvero fatta astrazione dal sesso. Ma per i maschi intellettuali questa paura troppo recitata (in privato, ripeto, dove si parla apertamente di “potere ricattatorio” dei moderni ginecei) assomiglia un po’ troppo a un catenaccio difensivo; escano allo scoperto, presentino le prove. Se esistono giornaliste, o scrittrici, o studiose sopravvalutate solo perché donne lo si dica, si esca dal mugugno. Ma forse un po’ di ricatto culturale è davvero nell’aria: io stesso, in questo pezzo, non me la sono sentita di fare nomi.

© riproduzione riservata

i si sente fratelli nella diversità. E non parlo del timore antropologico, arcaico e quasi sacro, per il fatto che sono le donne a produrre la vita in un modo così vistoso e indiscutibile; né dell’ambiguo statuto del coito per cui il fallo può essere insieme scettro e aspettativa ansiogena; né del fastidio impanicato, soprattutto nei ceti meno colti, di fronte all’esibizione della fluidità – spiraglio che apre ai dubbi, minacciando armature costruite nei secoli: «e se mi piacessero ? se fossi meno uomo di quanto immagino ?». La femminilità come pericolo strisciante, come segno di debolezza. No, il fenomeno mi pare più vasto e più precisamente connesso all’attualità socioculturale.

Mi sembra una paura che ha a che fare col senso di colpa, e che questo a sua volta abbia a che fare col Potere. I maschi lo sanno, oscuramente o meno, quanto hanno sfruttato, o sottomesso, o discriminato le donne; col pretesto di amarle, e di eleggerle a custodi del nido familiare, le hanno “possedute” e confinate entro il perimetro delle occupazioni domestiche (mio padre, che era l’uomo più buono e tollerante del mondo, quando io compii un anno pretese che mamma lasciasse il lavoro ma questo non fece che aggiungere adorazione al mio terrore, e fu peggio). Dilatando arbitrariamente la predisposizione biologica delle femmine ad aver cura dei cuccioli, i maschi si sono inventati delle “vocazioni” culturali che limitavano la donna entro certi ambiti della conoscenza e della tecnica, escludendole da altri: perfino alla Scuola Normale di Pisa, quando ci entrai nel 1966, sopravviveva il mito che nessuna donna fosse mai riuscita a diplomarsi in matematica. Le donne si occupino di abbellire e rendere gradevole la vita, mentre gli uomini escono per procacciarsi il necessario e sono adatti a governare la vita pubblica. “Fuori comando io”, dicevano i vecchi al bar della Cooperativa, “ma in casa comanda mia moglie” – e ridevano soddisfatti. (Quel che volevano dire in realtà era “fuori lo so di non contare niente, ma mi sfogo in casa comandando su mia moglie”).

Sto sciorinando banalità, sono due secoli che di queste cose si discute e da tempo han cominciato a cambiare; ma gli uomini si sono spaventati davvero, a livello di massa, molto più recentemente. Alcuni reagiscono con la violenza cieca di chi si sente mancare la terra sotto i piedi, il potere che quasi non erano coscienti di esercitare adesso che sentono di perderlo gli annebbia il cervello; altri, i più intelligenti, capiscono che le donne hanno ragione nel loro rivendicare uno spazio e un’autorevolezza negati; si sono accorti che l’angelo della Storia non si fermerà, si sentono responsabili anche per le violenze commesse dai più rozzi e si rifugiano nella cautela. Camminano tra le parole come se camminassero sulle uova, fanno i femministi ed esagerano stupidamente; ogni volta che in tivù qualcuno pronuncia il falso luogo comune “le donne sono sempre migliori degli uomini”, dal pubblico scatta automatico l’applauso. Questo non fa bene nemmeno alle donne, che devono continuamente compiere un lavoro di demistificazione e snidare il potere maschile dalle sue nuove (più arretrate ?) trincee. La rivoluzione è in corso e lascerà le sue vittime sul campo, non da una parte sola; il discorso sulla provvisorietà necessaria delle “quote rosa” somiglia a quel che fu teorizzato sulla dittatura dei proletari, nell’attesa di una società senza classi; è finita come sappiamo, con le nomenklature e gli oligarchi, ma anche col vecchio ordine completamente rovesciato. A proposito di nomenklatura: la presenza e il rango delle donne nei luoghi di potere pubblico si stanno (sia pure lentamente) riequilibrando – ma ho l’impressione che a livello della struttura economica i gangli della finanza (i soldi veri) siano ancora in mano maschile, mentre la rivincita femminile è più rapida nei livelli che chiamerei sovrastrutturali: la politica con le sue ideologie, le istituzioni nei ruoli più appariscenti e simbolici, ma soprattutto quel mare per eccellenza mobile e sensibile alle brezze superficiali che è la comunicazione - è in questo mare agitato che l’ansia dei maschi rasenta, mi pare, l’isterismo.

I social, che in tanti casi sanno essere strumenti di denuncia e liberazione, hanno anche incentivato enormemente l’ipocrisia. Proprio perché ora si tende a pubblicare a botta calda tutto quello che passa per la testa (senza prima “mordersi la lingua”, come raccomandava Calvino), proprio per questo si sa che quel che si pubblica può mettere nei guai. Ci sono tantissimi maschi, lo giuro, che in privato mi dicono di essere terrorizzati dallo strapotere femminile nella comunicazione pubblica, ma non sarebbero mai disposti a scriverlo. “Se no poi quelle” (e nel pronome dimostrativo risuona più paura che disprezzo) “mi si scatenano contro”. La paura, come spesso succede quando si mischia alla rabbia in individui riflessivi, non va senza una sfumatura di umorismo iperbolico: si evocano (sempre in privato) fantasmi di femmine castratrici, mènadi o baccanti, virago con la loro corte di cavalier serventi e giovani lacché. Il mio io-bambino, bisognoso di conferme, respira aria di casa ma poi si insospettisce: non sarà ancora una volta una manovra strategica, una prudenza teatralizzata a scopi tattici, o una pauretta di eventuali discussioni coniugali ? Questi non lo sanno nemmeno che cos’è la vera paura, quella paralizzante, davanti alle donne. Disegnano complotti di ipotetiche lobbies femminili che spadroneggiano negli odierni salotti virtuali e televisivi, gruppi di scrittrici che magari personalmente si odiano ma pubblicamente “si tengono bordone”, pronte a crocifiggere chi parli contro una di loro; più interessate all’insperato potere mediatico (vagheggiato come un nuovo giocattolo) che al crollo del patriarcato. Costruzioni paranoiche, forse; quel che temo, nella realtà del discorso culturale, è che parlar-bene-delle-donne-a-prescindere diventi un must per nascondere una impresentabile coda di paglia. Che diventi, ancora una volta, una faccenda di noi contro loro; come i vecchi della cooperativa, sostituendo alla “casa” le case editrici.

Che ora le case editrici, o i giornali, o le redazioni dei programmi sportivi, cerchino a tutti i costi voci femminili non mi pare un guaio, così finalmente cadrà ogni alibi e si vedrà chi vale davvero fatta astrazione dal sesso. Ma per i maschi intellettuali questa paura troppo recitata (in privato, ripeto, dove si parla apertamente di “potere ricattatorio” dei moderni ginecei) assomiglia un po’ troppo a un catenaccio difensivo; escano allo scoperto, presentino le prove. Se esistono giornaliste, o scrittrici, o studiose sopravvalutate solo perché donne lo si dica, si esca dal mugugno. Ma forse un po’ di ricatto culturale è davvero nell’aria: io stesso, in questo pezzo, non me la sono sentita di fare nomi.

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