Non più tardi di due settimane fa scrivevo del mese di settembre e dell’esplosione di buone intenzioni che si porta dietro, e sull’onda lunga di questo immotivato ottimismo ho preso una decisione impensabile: mi sono iscritta in palestra.

Una mossa di sicuro non rivoluzionaria per molte persone, ma abbastanza inspiegabile per la sottoscritta, considerato che da anni (dodici, per la precisione) considero sport camminare sulle scale mobili invece che farmi trasportare inerme come un nigiri sul rullo del sushi.

Più volte ho affermato di trovarmi d’accordo con Donald Trump, che tra le tante cose sostiene anche che l’esercizio fisico faccia male alla salute, e a mia volta ho elaborato diverse teorie del tutto prive di qualsiasi evidenza scientifica: il mio corpo, ho decretato, non produce endorfine, il minimo sforzo genera in me non il benessere mentale di cui tutti parlano, bensì una rabbia cieca.

Ho passato una vita a schivare passeggiate in montagna, running club, app di fitness, con la precisa intenzione di preservare il mio equilibrio psichico, poi è arrivata la pandemia, che combinata ai miei trent’anni e alla morte del metabolismo veloce ha fatto sì che nessuno dei miei pantaloni mi si chiudesse più addosso e così mi sono trovata davanti a un bivio: comprare dei pantaloni nuovi o andare su YouTube e digitare “culo sodo” nella barra di ricerca.

A cicli intermittenti mi sono allenata su un materassino incastrato tra il frigorifero e il tavolo da pranzo, silenziando le musiche brutte dei tutorial di varie signorine molto toniche e sfruttando la sola forza propulsiva delle mie bestemmie e degli episodi di Gilmore Girls in sottofondo.

Dell’allenamento casalingo notavo soprattutto i vantaggi: faccio schifo ma nessuno mi vede (a parte il fidanzato, che però essendo toscano ha buona tolleranza per le bestemmie), ho accesso diretto alla mia doccia ed è tutto gratis, che è il prezzo che sono disposta a pagare per fare una cosa che odio.

Lo spirito di settembre

O almeno così pensavo, prima che lo spirito di settembre mi portasse in tour tra le palestre di Milano a ponderare preventivi molto al di sopra delle mie possibilità economiche. Ho fatto visite guidate di saune, macchinari, uomini sudati, ho ascoltato ragazze foderate di lycra parlare di indici di massa grassa, workout personalizzati e “motivation”, mi sono immaginata alle 8 di sera di un mercoledì di gennaio a trascinarmi in un posto dove le bestemmie non sono benviste e l’entusiasmo si è spento, la motivation si è volatilizzata, e ho concluso che per 140 euro al mese dovrebbero almeno essere in grado di utilizzare la tecnologia di Matrix per impiantarmi il sedere dei miei desideri attraverso uno spinotto nella nuca. Tale è la mia motivation: sarei pronta a pagare per un’anestesia totale alla settimana, piuttosto che fare la minima fatica.

E invece bastava tornare alle origini. Prima di questo iato di dodici anni, ero stata tenuta in vita dalla danza contemporanea, che per un decennio mi aveva illuso di fare arte, non sport, mentre il mio corpo rimaneva indipendentemente prestante. Frequentavo una scuola un po’ fricchettona, dove la frase “respira le braccia” veniva usata con una frequenza inusuale, potevamo mangiare male e fumare e sbronzarci prima dei saggi di fine anno, mentre le colleghe delle scuole di classica ci guardavano con gli occhi languidi della loro vita di privazioni e disciplina.

Così, anche se a Milano nessuno nella storia ha mai suggerito di respirare le braccia, ho pensato che l’unica opzione che mi rimaneva per impedire alle mie natiche di arrivare al pavimento, evitando contemporaneamente di sviluppare pensieri suicidi, a questo punto era la danza.

I corsi misteriosi

Da quel momento di lucidità tutto è andato al proprio posto: ho trovato una palestra con ampia scelta di discipline tersicoree, a pochi passi da casa, a un prezzo che non avrebbe reso necessario richiedere un prestito in banca. Mille corsi diversi e l’improvvisa voglia di provarli tutti, soprattutto i più misteriosi: voguing, girly, tacchi con palo, tacchi senza palo, afro-dancehall e gestualità femminile, che forse mi servirebbe più di quanto mi faccia piacere ammettere. Tutto faceva pensare al luogo in cui avrei potuto finalmente inseguire il mio sogno segreto di partecipare a RuPaul’s Drag Race.

Dopo un faticoso weekend a Mantova per il Festivaletteratura, dove mi sono trascinata per giorni incapace di fare le scale a causa di una prova di functional training gravemente sottovalutata, ho deciso di seguire le orme di una grande eroina, Jessica Alba in Honey, e mi sono iscritta a una lezione di urban female, qualsiasi cosa significhi. Mentre l’insegnante di discendenza caraibica (bellissima, simpatica, cool) muoveva pezzi del proprio corpo che non pensavo potessero essere utilizzati se non in una frattura scomposta, esibendosi in quella che mi sentirei di definire “lezione di Rihanna”, io in mezzo ad altri venti insetti stecchi irrimediabilmente caucasici riflettevo sul privilegio bianco e su quanto poco si applicasse in quella situazione.

Per quanto privilegiate, nessuna di noi aveva il privilegio di non far ridere i polli. Sono andata poi a respirare le braccia a una lezione di danza moderna, dove com’è ovvio mi sono sentita molto meno ridicola e molto meno bianca, ma dove ho anche percepito una grave carenza di potenziale umoristico, che invece da tempo ormai mi guida molto più del senso del pudore. È forse questa l’età adulta? O è solo appropriazione culturale?

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