«Ho dei bambini, non posso perdere il mio lavoro». Ad affermarlo era stata una delle oltre settanta donne ascoltate dalla Bbc nell’inchiesta sugli abusi sessuali all’interno delle piantagioni di tè in Kenya. Il ricatto a cui sono soggette è noto quanto antico, una procedura basata sullo sfruttamento delle condizioni abiette di queste persone: in cambio di un salario, i capi chiedono prima il loro corpo.

La vicenda ha fatto ulteriore luce sul basso livello dei diritti umani all’interno della catena di produzione, che non va circoscritta a un’area geografica. Quelle stesse aziende keniote riforniscono poi i grandi marchi del calibro di Lipton e Sainsbury’s Red Label, per rimanere in terra britannica, sebbene sia un problema che riguarda le aziende di tutto il mondo. A venire investito è l’intero settore, su cui da tempo piombano variabili impazzite che rischiano di minarlo: prima il Covid-19, poi l’impatto dei cambiamenti climatici, infine la guerra in Ucraina. Ma a subire le conseguenze sono coloro che abitano ai piedi della piramide.

Tra Kenya, appunto, Bangladesh, India, Sri Lanka, Uganda e altri 43 paesi, sono 13 milioni i lavoratori che subiscono un qualche “abuso sistemico”. A fornire questi numeri è stato il Business & Human Right Resource Centre, con sede in Inghilterra, che ha riscontrato violazioni della libertà di associazione, scarsa tutela in termini di salute e sicurezza, pagamenti mancati e condizioni di vita pessime. «Mentre i proprietari cercano di tagliare i costi in un settore sempre meno redditizio», si legge nel report, «si registra una tendenza crescente all’uso di contratti temporanei, di fornitori di manodopera terzi e di altri accordi di lavoro precario. Questi accordi aumentano la vulnerabilità dei lavoratori sugli abusi, tra cui lo sfruttamento sessuale e le violazioni della salute e della sicurezza, e rendono loro più difficile unirsi in un sindacato per difendere collettivamente i propri diritti».

Tè di lusso, salari da fame

Tra le abitudini di re Carlo III c’è quella di saltare il pranzo, che consiste appena in una tazza di tè. Rigorosamente Darjeeling, lo stesso preferito da sua madre, una particolare coltivazione indiana altamente pregiata. Viene considerato il migliore tè nero al mondo, soprannominato lo Champagne dei tè, servito anche durante l’ultimo G-20 di scena a New Delhi.

Tuttavia l’alto livello di qualità stona parecchio con le condizioni di chi lo produce che, come ha sottolineato una commissione al Parlamento indiano in un report apposito, «ricordano il lavoro indigente introdotto in epoca coloniale dai piantatori britannici». Il documento è datato due anni fa, quando era scoppiato il caso – non l’unico – in cui venivano denunciate diverse violazioni nei confronti dei lavoratori all’interno delle piantagioni, che si distendono lungo il Bengala settentrionale.

In base al Land Reform Act del 1955, l’India prevede la cessazione di alcuni lotti di terra da parte dello stato che le affitta alle aziende. A loro volta, concedono ai lavoratori e alle loro famiglie di abitarci a condizione che almeno uno di loro presti le sue braccia ai campi. Altrimenti, gli viene tolto l’alloggio in quanto non godono di alcun diritto di proprietà. Eppure in molti hanno iniziato a rifiutarsi di lavorare.

A causa di un connubio mortale – gli eventi estremi della natura e la concorrenza a basso costo, come il tè proveniente del Nepal – l’intera industria del Darjeeling è sotto pressione. Una dimostrazione sta nella sua produzione, dimezzatasi nel giro di dieci anni. Il che comporta stipendi da fame, che si aggirano tra le 200 e le 300 rupie al giorno: al cambio si sfiorano i tre euro, una cifra insufficiente per tutto. Ai lavoratori spetterebbero anche diversi benefit, come un fondo di previdenza sociale, assistenza medica e istruzione gratuite. Ma delle volte non gli viene concesso nemmeno di accedere ai programmi del governo per le fasce più deboli, di cui i raccoglitori di foglie di tè fanno parte loro malgrado.

Una piaga collettiva

Ad avere la schiena chinata nelle coltivazioni di tè ci sono molte donne. Rappresentano il 58 per cento della forza lavoro nel settore in India, il 35 per cento di quella del Malawi che conta un 65 per cento di quote rosa tra i piccoli agricoltori, il 60 per cento di quella dello Sri Lanka. Non è un dato qualsiasi, perché all’interno del settore essere maschio o femmina può trasformarsi in una discriminante. Se il primo può godere di una serie di diritti, come la possibilità di contrattare il suo salario, a una lavoratrice viene garantito un reddito solo su base giornaliera o a cottimo, non sono offerte opportunità di formazione, figurarsi quindi una promozione o un aumento dello stipendio. Seguono violenze sessuali come quelle testimoniate (anche) dalla Bbc.

Ancor peggio va a chi appartiene a una minoranza etnica o proviene dal basso, ha una disabilità più o meno grave o si tratti di una migrante: in questi casi, la stigmatizzazione è più accentuata. All’interno della catena produttiva sono spesso finiti anche i minori. Lo ha ammesso lo stesso Tea Board indiano, che ne ha contati circa 80mila. Vent’anni fa in Kenya un terzo degli impiegati nei campi aveva meno di quindici anni, una percentuale molto più alta di quella registrata in Sri Lanka, dove ad ogni modo sette bambini su dieci hanno iniziato a lavorare in un’età compresa tra i dodici e i quindici anni per dare una mano alle loro famiglie.

Va da sé che la loro giovane età li rende maggiormente più fragili. Specie le bambine, soggette ad antiche pratiche di schiavitù. Come quelle che una decina di anni fa sono state prelevate dalla tenuta di Nahorani, ad Assam, di proprietà di un consorzio di cui facevano parte la Tata Global Beverages – distributore mondiale di tè che vanta anche tra le sue firme quella di Tetley, marchio britannico conosciuto in tutto il mondo – e l’International Finance Corporation, il braccio di investimento della Banca Mondiale. Con la promessa di un futuro migliore altrove, visto che i salari erano ampiamente al di sotto della soglia legale, le ricattavano immettendole nel giro della prostituzione.

Il ruolo delle major

Invischiate in queste faccende ci sono gran parte delle major di tè e rivenditori. Nel rapporto del Business & Human Right Resource ne vengono citate sedici, tra cui Starbucks, Twinings, Marks & Spencer, Plus, Morrison, Typhoo e Ekaterra. Quest’ultima ha per esempio diverse piantagioni in Bangladesh dove circa 150mila lavoratori hanno richiesto un aumento salariale, ritenendo quindi insufficiente quello offerto. Spesso non gli viene concesso dalle aziende agricole, le stesse che poi riforniscono i grandi brand del settore.

Ai quali, sebbene si mostrino collaborativi nel momento in cui emergono le violazioni, viene richiesto un maggiore controllo lungo tutta la filiera produttiva, per evitare storture di questo genere. Altrimenti, anche loro dovranno dare una risposta alla domanda posta da una raccoglitrice indiana: «Cosa si può fare oggi con 200 rupie al giorno?».

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