«Ah ma questo è Balotelli!», esclama lo stampatore del libro mentre sta correggendo la cromia, convinto di aver riconosciuto, in uno dei ritratti, il noto calciatore italiano. Quando Umberto Nicoletti, autore del presunto “ritratto di Balotelli”, glielo sente dire, capisce di aver raggiunto il suo intento: «Volevo ritrarli come delle star, perché per me un punto di riferimento non è tanto l’attore famoso quanto qualcuno che rappresenta dei valori: ci vuole molto coraggio per affrontare quello che affrontano loro».

“Loro” sono i protagonisti di Asylum (Rizzoli, 320ppgg, 85 euro), le persone Lgbtqi+ che chiedono asilo in quanto perseguitate nei loro paesi d’origine a causa dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere, in altre parole «del loro modo di essere e di amare» come scrive nella prefazione Filippo Grandi, presidente dell’alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr).

Qualcuno qui avrà già smesso di leggere, perché quello dei rifugiati in generale, e di questi in particolare, non è un tema “sexy”, come dicono oggi quelli che ne capiscono di marketing della comunicazione: «L’unica volta in cui se ne è parlato», va a memoria Nicoletti, «è stato qualche anno fa e in chiave populista: si disse che alcuni migranti facevano finta di appartenere alla comunità Lgbtqi+ per ottenere l’asilo. Un’accusa assurda, perché mentire su una cosa del genere non solo vorrebbe dire fingere di essere in fondo alla scala sociale ma anche mettere a rischio la propria vita: i richiedenti asilo per motivi legati al genere o all’orientamento sessuale sono gli ultimi tra gli ultimi, subiscono violenze non solo nei paesi da cui fuggono ma anche da altri migranti, nei centri di accoglienza dei paesi in cui arrivano».

Vittime di persone a loro volta vittime: «E poi non è che arrivi, dici “Sono gay” e ti danno l’asilo: in media ci vogliono quattro anni per ottenerlo». Ogni paese ha la sua legislazione e, a causa delle strutture di detenzione in cui possono finire i richiedenti asilo, ci sono testimonianze di persone che hanno subìto più traumi nel paese di arrivo che in quello da cui fuggivano».

Modelli

L’obiettivo di Nicoletti, inteso sia come proposito sia come sineddoche per dire macchina fotografica, si allontana dalla rappresentazione stereotipata della “vittima”, ribalta la percezione che abbiamo dei migranti per toglierli dal limbo in cui sono massa indistinta, numeri, e restituisce loro un’identità, li fa essere individui con una storia.

Per riuscirci ha scelto di usare gli stessi mezzi di cui si servono moda e pubblicità che lui padroneggia perché sono il suo ambito lavorativo: «Ho deciso di guardare la questione dal mio punto di vista: non sono un fotografo di reportage, lavoro soprattutto con l’estetica. Questo progetto riflette anche sulla comunicazione: quando comunichiamo per “vendere” qualcosa la imbellettiamo, quindi perché non usare la stessa tecnica per aiutare chi guarderà le mie foto a provare empatia per queste persone? Ho scelto di fotografare questi reietti come i tanti modelli e personaggi famosi che ho ritratto nel corso della mia carriera: come delle vere star. E quando lo stampatore ha scambiato uno di loro per Balotelli, ho capito di aver fatto centro. Non volevo foto che facessero dire “Uhhh poverino” bensì “Che figo”, che portassero ad ammirare il coraggio di queste persone e inducessero a porsi la domanda che è nascosta nel libro: “Tu ce l’avresti il coraggio di fare quello che ha fatto questa persona?”. Il mio sogno è che chi guarda si renda conto che nascere in un paese in cui non si è incarcerati o uccisi per chi si è non è un merito, è solo fortuna».

Il test fallometrico

E qui è arrivato il momento di parlare di un numero, il 43. Un numero qualsiasi, che diventa impressionante se lo si inserisce in questa storia. È scritto sulla quarta di copertina: «Il 43 per cento dei paesi nel mondo, ancora oggi prevede il carcere o la pena di morte per la comunità Lgbtqi+». Vuol dire che quasi la metà del pianeta non è un bel posto in cui vivere se non rientri nei parametri di una sessualità considerata “normale”.

Ma chi stabilisce cosa è normale? Nei paesi a cui viene chiesto asilo i rifugiati vengono convocati da una commissione che determina se il richiedente abbia o meno diritto alla protezione e in questo colloquio, spesso umiliante, il soggetto è invitato a dimostrare la propria identità sessuale.

«Detta brutalmente, la commissione deve capire se uno che dice di essere gay è davvero gay. Ma come si fa? Fino a qualche anno fa c’erano addirittura degli pseudotest basati su stereotipi (per cui se un uomo non era palesemente effeminato non poteva dirsi omosessuale) o pratiche come il “test fallometrico” col quale, in stile Arancia meccanica, ti facevano vedere dei filmati porno per valutare la tua reazione. E stiamo parlando dell’Europa».

Solo nel 2012 l’Unhcr è intervenuto per porre fine a queste pratiche: oggi le commissioni si affidano ad associazioni, come l’Arcigay in Italia, che aiutano i rifugiati sia nelle pratiche per ottenere l’asilo che, successivamente, a integrarsi nella società.

Fotografie

È l’Arcigay di Milano che inizialmente ha chiesto a Nicoletti di lavorare su questo tema, e in seguito lo ha aiutato a contattare le associazioni che operano in altri continenti per trovare le persone da fotografare. È stato allora che Nicoletti si è reso conto che quello che aveva iniziato era «un libro impossibile, sia perché i rifugiati non vogliono farsi fotografare per paura di essere riconosciuti, sia perché noi vorremmo che ci raccontassero le loro storie mentre loro non ci pensano proprio. Alcuni sono così traumatizzati da non riuscire nemmeno a parlare nella loro lingua, perché la associano al paese da cui sono fuggiti. L’unica cosa di cui hanno voglia di parlare sono i loro sogni».

Collaborando con Progetto IO (Arcigay Milano) e con altre associazioni nel mondo, alla fine Nicoletti ce l’ha fatta e in due anni (a sue spese, e non si tratta di spicci), tra il 2016 e il 2018, ha fotografato 60 persone, richiedenti asilo o che lo avevano ottenuto, tra Milano, Londra (Rainbow Migration), New York (RusaLgbt), Washington (DC Center) e il Canada (The 519).

Cosa farei?

Nonostante le persone ritratte abbiano preferito tacere le loro esperienze, il libro contiene tantissime testimonianze dirette estrapolate dalle lettere che i rifugiati devono scrivere per motivare la loro richiesta d’asilo e che Nicoletti ha avuto il permesso di pubblicare in forma anonima.

Qui non ne cito neanche una perché sono haiku dagli abissi, piccoli cortometraggi di un orrore che sarebbe errato definire “disumano” o “bestiale” essendo il male peculiarità umanissima e non degli animali come ci piace credere. Ma lo è anche “la capacità di comprendere la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato” (definizione della parola “empatia” secondo il vocabolario): «Mi piacerebbe che sfogliando questo libro l’empatia nascesse ponendosi questa domanda: “Se nel mio paese non potessi fare quello che mi piace fare o essere me stesso, cosa farei?”».

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