«Nulla al mondo è più invisibile dei monumenti», scriveva Musil un secolo fa. L’osservazione vale anche oggi. Prima che si cominciassero a distruggere le statue di personaggi dubbi, l’arte le aveva messe in questione
La cosa più strana nei monumenti è che non si notano affatto. Nulla al mondo è più invisibile». Lo scriveva Robert Musil cent’anni fa, ma è un’affermazione che possiamo ancora condividere, nonostante i molti monumenti abbattuti negli ultimi tempi perché dedicati a colonialisti, razzisti, sessisti. I monumenti non si vedono, e ci vuole un gesto che li rovesci o li distrugga per richiamare l’attenzione su di loro. Se il personaggio al quale è dedicato il monumento non ha commesso nefandezze, il suo monumento è infallibilmente destinato all’oblio. Nessuno lo guarderà. A Roma, per esempio, c’è una grande piazza proprio dietro il palazzo di Giustizia, piazza Cavour.
Al centro c’è un monumento, che ho tutti i motivi di ritenere rappresenti colui al quale la piazza è intitolata, ossia Camillo Benso conte di Cavour. Sarei disposto a scommetterci, ma il fatto è che, pur essedo passato centinaia di volte per quella piazza e pur avendo attraversato più volte i suoi giardini, io quel monumento non lo ho mai visto, non diciamo guardato.
Se un buontempone avesse deciso di metterci una statua, anziché di Cavour, di Garibaldi, non me ne sarei mai accorto e lo stesso, credo, sarebbe accaduto a buona parte dei romani. Certo, rimane il nome della piazza a celebrare l’artefice dell’unità d’Italia, ma ammetterete che questo col monumento non c’entra nulla, e oltretutto non è nemmeno così sicuro. Quanti a Roma sanno chi sono i Cinquecento di Piazza dei Cinquecento, la grande piazza davanti alla stazione?
Arte contemporanea
Ben prima che i monumenti godessero di un’effimera popolarità perché fatti oggetto di gesti iconoclastici, come accaduto con le statue di Cristoforo Colombo abbattute in America negli ultimi anni, o con la statua di Saddam Hussein dopo la guerra in Iraq, o ancora con le statue degli eroi della rivoluzione sovietica dopo la caduta del muro di Berlino, la crisi del monumento e la difficoltà a pensare forme efficaci di monumentalità in un mondo in cui uno schermo pubblicitario ha molte più probabilità di attirare l’attenzione rispetto a un birillo immobile al centro di una piazza erano state sperimentate dall’arte contemporanea.
Al rapporto difficile che l’arte degli ultimi decenni intrattiene con i compiti celebrativi e commemorativi che ci attendiamo da un monumento dedica ora un libro informatissimo Andrea Pinotti, mentre per i monumenti abbattuti c’è Giù i monumenti di Lisa Parola (Einaudi 2022). Il suo libro Pinotti lo intitola Nonumento (con la n, Joahn & Levi 2023), e non è ovviamente un refuso ma un rinvio al modo in cui molti artisti hanno pensato e progettato non-monumenti, anti-monumenti, o, appunto, nonumenti, che è il nome che suggeriva di usare Gordon Matta-Clark, l’artista americano noto per le sue operazioni di “splitting”, con le quali tagliava in due architetture destinate alla demolizione, o vi apriva fori conici di grandi dimensioni.
Matta Clark si proponeva di contestare la grandeur e la pompa di molte architetture: una dei suoi tagli più spettacolari voleva fare da contraltare al Beauburg di Piano e Rogers, nientemeno. Il monumento non riguarda solo la scultura, e l’aggettivo monumentale o il sostantivo monumentalità noi li usiamo molto più spesso in relazione all’architettura, che del resto ormai crea spesso edifici che sembrano enormi sculture.
Matta Clark si muoveva sulla scia della contestazione della monumentalità lanciata da Robert Smithson, che è conosciuto soprattutto per i suoi grandi lavori di Land Art, come la Spiral Jetty nel lago salato dello Utah, ma che negli anni Sessanta del secolo scorso aveva avviato una serie di operazioni tra il concettuale e il dissacrante.
Nel 1967, per esempio, intraprese un ironico tour per i monumenti di Passaic, una cittadina del New Jersey, documentato da fotografie volutamente dimesse: i monumenti in questione, infatti, altro non erano che rimasugli di impianti industriali abbandonati, che sarebbe eccessivo definire rovine: i tubi di scarico di vecchie turbine, un misero ponticello di ferro ai lati di un ponte ferroviario.
Stereotipi
Da allora, sembra che molta arte contemporanea si sia prefisso un rovesciamento sistematico di quelle che si possono considerare le marche riconosciute della monumentalità. Il monumento tradizionale si connota innanzi tutto per la verticalità, per il fatto di ergersi verso l’alto e di sovrastare? Si dice monumento e si pensa subito a obelischi, colonne, dolmen? E allora il monumento contemporaneo cercherà di contrapporsi, sviluppandosi in dimensioni diverse, come la profondità o l’orizzontalità. Il Monumento contro il fascismo di Jochen Gerz, ad Amburgo, è una colonna rivestita di piombo.
Uno stilo appuntito è a disposizione del pubblico che può incidere sul piombo una frase, un ricordo. Man mano che la colonna si riempie di scritte, si inabissa nel terreno, e alla fine scompare del tutto. Il Memoriale per un memoriale, a Buchenwald, è una placca di metallo collocata orizzontalmente nel terreno, riscaldata costantemente alla temperatura del corpo umano. I visitatori sono indotti a inginocchiarsi e a posare le loro mani sulla piastra, un gesto di rispetto che fa unire alla dimensione orizzontale la ricerca di una partecipazione, un coinvolgimento tattile che è anch’esso agli antipodi della monumentalità classica.
Alcuni dei monumenti o contromonumenti più celebri del contemporaneo dispiegano proprio questo sviluppo in orizzontale e questo inabissarsi a tratti nella terra: il Monumento per gli ebrei uccisi in Europa, di Peter Eisenman, a lato della Porta di Brandeburgo a Berlino, o il Vietnam Veteran Memorial di Maya Lin a Washington. Ma anche le Pietre d’inciampo di Demning che troviamo davanti alle case dei deportati nelle nostre strade sono, infondo, piccoli monumenti interrati. I monumenti di solito non sono solo verticali, ambiscono alla durata, e si candidano all’eternità. I contromonumenti, quindi, cercheranno piuttosto l’effimero, il transitorio, il deperibile.
A Trafalgar Square, oltre alla colonna di Nelson, ci sono quattro basamenti per altri monumenti. Tre sono da sempre già occupati, ma il quarto non lo è mai stato e su di esso si sono alternate, nel tempo, le installazioni temporanee di parecchi artisti, spesso con vivaci polemiche. L’immobilità dei monumenti, infine, è stata messa in questione dai cosiddetti “monumenti performativi”: happening, performance, flash mob hanno occupato il posto – e la funzione – del monumento.
Monumenti e vergogna
Un altro tratto comune a molti monumenti contemporanei è che si scelgono forme astratte, rifiutando il figurativo. La cosa, spesso, disturba perché sembra abdicare dallo scopo fondamentale della commemorazione e del ricordo, e a riscontro del Veteran Memorial di Washington i veterani hanno voluto tre sculture che raffigurano tre soldati. Il problema, sottolinea Pinotti, è reale: come può una forma astratta, un monumento intransitivo, veicolare una memoria?
Qui, probabilmente, occorrerebbe chiamare in causa non solo l’estetica ma la i memory studies e la sociologia della memoria (non a caso uno degli studi più significativi sul Veteran Memorial è opera di una sociologa, Robin Wagner Pacifici e Barry Schwartz), perché il monumento deve tramandare una memoria pubblica, è un fatto sociale oltre che estetico (o meglio è un fatto sociale in quanto fatto estetico), e certo è riduttivo parlare solo di “interferenze” tra estetica e memoria pubblica. E i cinquecento di Piazza dei Cinquecento?
Sono i soldati italiani morti a Dogali, nel corso della guerra di Eritrea del 1887. Anche loro hanno un monumento, tanto per cambiare un obelisco, che però è stato spostato dalla piazza in una via laterale e si vede poco. Si tratta, dunque, della memoria di un episodio di colonialismo.
Ma forse merita qualche indulgenza, perché ricorda una sconfitta, e soprattutto perché, in un paese come il nostro, che tollera un monumento alla memoria di Rodolfo Graziani, il massacratore di Debra Libanos e il gasatore degli Etiopi, un monumento a quelli che d’Annunzio, nel Piacere, chiamò con disprezzo «quattrocento morti, morti brutalmente», fa quasi tenerezza.
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